Cara di Mineo, città di migranti con 1650 studenti a scuola per imparare l’italiano

Di redazione / 05 Agosto 2017

MINEO (CATANIA) – Tremila migranti, 380 dipendenti, più centinaia di persone tra volontari, militari e forze dell’ordine. E’ un piccolo paese nella Piana di Catania il Centro accoglienza richiedenti asilo (Cara) di Mineo, il più grande d’Europa, che in un giorno di assolata estate siciliana, col termometro che segna 48 gradi, sembra essere un colorato villaggio turistico. Entriamo e vediamo strade libere e poche persone a passeggio, mentre nelle villette a schiera, che fino a pochi anni fa ospitava i marines degli Stati Uniti, sono accesi i climatizzatori. Ma ci sono anche locali comuni pieni: le strutture adibite a scuola, per esempio, 42 classi che impegnano 1.650 studenti con un obiettivo principale: imparare l’italiano. Lezioni cinque giorni su sette.


Così Maxwell, 21 anni, nigeriano, sui banchi da tre mesi, dopo uno sbarco, studia con applicazione. La prima cosa che ha imparato è stato a contare: «uno, due, tre, quattro…». Poi a dire «mi chiamo Maxwell e sono straniero, sono nigeriano e vivo nel Cara. Ciao, buongiorno e buonasera. Grazie». Sorride e parla bene inglese, sa che la lingua «è un passo importante per la mia integrazione». Ma dietro al volto sereno c’è dietro un ‘viaggiò lungo e pericoloso. Che per molti altri è stato tragedia, un percorso da incubo, con dolore e sangue.


Confessa il suo grande terrore un regista iracheno, Sheban Al, che ha lasciato il suo paese perché «la vita lì ormai aveva un solo colore: grigio» e non «c’era futuro per la famiglia». E’ partito dall’Egitto con moglie e quattro figli: «16 giorni su una barca: la sera ci abbracciavamo con la morte perché non sapevamo se saremmo sopravvissuti». Con l’esperienza fatta, ora si sente di dire agli altri: «non partite, non mettete a rischio la vita dei vostri figli». Lui è uno dei pochi ammessi al ricollocamento in Europa, tra pochi giorni con la sua famiglia andrà in Belgio. La sua vita adesso la immagina a «colori», soprattutto «per i miei figli che avranno un futuro e saranno europei».


Ma non tutte le storie del Cara sono a lieto fine. Nella struttura ci sono persone che hanno perso genitori, figli, amici. Storie struggenti di un dolore che il tempo non riesce a lenire. Cercano di aiutarli gli psicologi che lavorano nella struttura, dove sono nati anche tanti bambini. In 88 tra un giorno di vita e 5 anni sono ospiti della zona ‘mammà. Di fronte in un ufficio ci sono i legali del centro che spiegano diritti e doveri ai migranti. Il più difficile da far capire, rivelano, «è la proprietà privata, concetto giuridico che nei loro Paesi non esiste». Accanto si istruiscono le pratiche per le richieste di concessione dei visti per lo status di rifugiato. La gente in fila all’ombra attende il turno di essere sentita dalla commissione. Le richieste respinte possono essere appellate, e il Cara mette a disposizione legali esterni alla struttura per seguire le pratiche. Per i migranti c’è anche la possibilità di redigere curriculum per essere inseriti nel mondo del lavoro: «Abbiamo avuto anche grandi professionisti – dice una delle vice direttrici del Cara, Ivana Galanti – adesso la maggior parte sono artigiani, braccianti, muratori». «Il nostro obiettivo – sottolinea il direttore ed ex commissario del Cara, Giuseppe Di Natale – è di fare accoglienza e di puntare tutto sull’umanità e sul contatto con il territorio». «La percezione della sicurezza nei centri vicini – osserva – è aumentata, c’è una grande sinergia. Il modello Cara messo in campo dal governo dal punto del servizio funziona, ed è un esempio di uno Stato, quello Italiano, che sta dimostrando al mondo un impegno fuori dal comune, capace di salvare e accogliere vite umane con una solidarietà che si trova in pochi Paesi al mondo».


Fuori il vento caldo accresce la sofferenza tra chi è in strada. Uno degli ospiti cede e sviene per un colpo di calore: soccorso dalla Croce rossa, presente con medici e volontari, oltre a specialisti che sono di turno nel Cara, esce in ambulanza, che corre verso l’ospedale più vicino. I campi di calcio, pallavolo e basket sono deserti. Si rianimeranno all’imbrunire. Il vociare dei ragazzini che tornano dal grest estivo, interno al Cara, mentre per la scuola dell’obbligo frequentano quella pubblica di Mineo, scuote il silenzio. Hanno fame. E che è ora di pranzo si vede da migranti che corrono verso la mensa. Dove tra colazione, pranzo e cena sono serviti circa 1.600 pasti. «Facciamo tutto noi – spiega il responsabile del servizio ristorazione, Vincenzo Surace – tenendo conto delle esigenze anche religiose degli ospiti, nel rispetto di tutti». Anche durante il Ramadan. Il piatto preferito? Spaghetti, con qualsiasi condimento. Li chiedono espressamente e, si vede, li mangiano molto volentieri, oggi conditi con una salsa al nero di seppia. Il menù è scelto assieme ai “presidenti delegati” eletti da ciascuna comunità presente: una sorta di Onu del Cara, interfaccia con la direzione e le Istituzioni, che fanno sentire la loro voce anche su Internet con una webradio sul sito caranews. Uno dei locali maggiormente frequentato è il bazar, dove si può comprare il necessario. Ogni migrante ha una card sulla quale vengono accreditati tutti i giorni 2 euro e 50 centesimi, che si possono spendere soltanto lì. Somme che possono accumulare fino al raggiungimento della somma che serve per comprare quello che si desidera, o si ritiene utile. Ma anche la sala con l’internet point è affollata.


Dietro al cancello dal Cara decine di persone in fila, con la bici, aspettano di uscire. I 48 gradi e il sole che brucia accecando sembrano non esistere per loro: la voglia di libertà è più forte di qualunque sofferenza, anche del caldo. 

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Redazione
Tag: cara migranti mineo villaggio