Una coperta, alcuni fogli scritti in maniera fitta con elencate diverse pietanze e ingredienti, in altri ci sono numerosi nomi, in altri ancora appunti vari dove al centro appare la scritta Muhlberg; e poi i ricordi, dolorosi, terribili.
Ciò che colpisce è la limpidezza del racconto, di quelle immagini che scorrono nella mente del narratore e diventano parole, un insieme di frasi che risuonano all’interno dell’auditorium “Don Milani”, dove un ammutolito pubblico fatto di studenti ascolta, quasi stordito, incredulo davanti a qualcuno che quella pagina orribile di storia l’ha vissuta.
Giovannino Sparpaglia è tornato dall’inferno dei campi di concentramento nazista e oggi, nonostante i suoi 102 anni (103 alle porte) non si arrende e continua a raccontare, a incontrare gli studenti perché, dice, è giusto che sappiano, perché non bisogna dimenticare. L’oblio è la fine di tutto, contro l’oblio non resta che narrare anche se ogni volta affiorano quei ricordi terribili che aprono l’anima da parte a parte.
Giovannino Sparpaglia ha incontrato gli studenti dell’Istituto comprensivo “Don Milani”. Con lui l’assessore alla Cultura, Giovambattista Caruso, che ha ricordato il procugino, Anselmo Rizzo, Imi (Internato militare italiano) come Giovannino Sparpaglia, rinchiuso al campo di concentramento di Unterluss.
Nonostante Giovannino Sparpaglia fosse un militare, dopo la firma dell’armistizio e la nascita della Repubblica di Salò, nel 1943, fu catturato dai tedeschi. Per lui si aprirono le porte del campo di concentramento di Muhlberg, in Germania.
«Il ricordo più vivo – dice Sparpaglia – è della fame. Se mi avessero detto vuoi riabbracciare la tua famiglia o vuoi mangiare, avrei sicuramente scelto il cibo che sognavamo per non impazzire».
Per riuscire a giustificare le torture, le sevizie sui militari rinchiusi, contro ogni forma di “tutela” di cui godono i militari che diventano prigionieri di guerra, i tedeschi si erano inventati un nuovo termine: “Imi”. Per Giovannino Sparpaglia sono stati due anni di vero orrore, trascorsi pensando di non riuscire a farcela. «Nella vita sono un fatalista – evidenzia -. Al campo la mattina mi alzavo e salutavo il letto, dicendogli “ciao letto. Stasera ci vediamo? Forse sì, forse no”. Queste parole mi hanno accompagnato nei due anni al campo e anche oggi, ogni mattino, saluto il letto visto che non possiamo sapere quando siamo destinati ad andare via».
Per decenni Giovannino Sparpaglia è rimasto in silenzio. Finita la guerra, tornato in Italia, il dolore provato al campo lo ha sepolto dentro il suo cuore, così come ha fatto Anselmo Rizzo e le tante persone sopravvissute ai campi nazisti. «Qualche anno fa ho cambiato idea – ha detto Giovannino Sparpaglia – ho capito che era giusto parlare, ho visto che i giovani ascoltavano e volevano sapere».