I dati Istat, elaborati dal Censis, dicono che nel 2016 l’Italia si è collocata all’ultimo posto tra i Paesi dell’Unione europea per tassi di attività femminile. Tra i 15 e i 64 anni hanno un’occupazione solo il 55% contro l’80,5% della Svezia. Non solo. Siamo al terzo posto, dopo Grecia e Cipro, per part-time involontario, cioè obbligato. E le poche «fortunate» che un lavoro ce l’hanno guadagnano meno dei colleghi maschi: il 3,7% nel settore pubblico e addirittura il 19,6% nel privato. Ovvio che le italiane siano le più sfiduciate d’Europa per quanto riguarda le prospettive di carriera, e questo sebbene il numero delle donne laureate, dal 1991, cresca costantemente rispetto ai maschi. Se poi a questi dati si aggiunge il «carico familiare» – con 4 ore di lavoro in più rispetto a mariti e compagni – il quadro si fa ancora più drammatico.
E le cose vanno peggio al Sud e nella nostra città, a partire dalla difficoltà di reperire i dati, ora che gli uffici studio dei sindacati sono stati soppressi. Ma come si fa a programmare politiche di riequilibrio di genere se non si ha una conoscenza precisa del fenomeno? I dati forniti dalla Uil – dalla responsabile del coordinamento territoriale Pari opportunità Serena Vitale e dal segretario generale Fortunato Parisi – ci dicono che, per il 2015, nella provincia di Catania il tasso di occupazione femminile (dai 14 ai 64 anni) è la metà del dato nazionale: il 27,6%, meno che a Messina (32,5%), Ragusa (32,3%), Siracusa (31,0%), Trapani (29,9%), Enna (28,2%), e meglio solo rispetto a Palermo (26,5%), Agrigento (24,4%) e Caltanissetta (22,5%). Un popolo di donne disoccupate, con quel che questo implica per l’autodeterminazione.
Numeri a parte, Catania aderisce comunque alla campagna mondiale «Non una di meno» contro la violenza e la svalutazione delle donne nel lavoro, nella società e in famiglia. Una mobilitazione cui hanno aderito 40 Paesi e che prevede lo sciopero generale delle donne, cioè l’«astensione dal lavoro produttivo e riproduttivo». Un modo per dire che «se noi donne non valiamo, se le nostre vite non valgono, allora ci fermiamo. Ci fermiamo per i nostri diritti di donne». Uno sciopero «per affermare la nostra forza a partire dalla sottrazione».
A Catania hanno aderito varie sigle sindacali (Usi, Slai Cobas per il sindacato di Classe, Cobas, Confederazione dei Comitati di Base, Usb, Sial Cobas, Usi-Ait, Usb, Sgb e Area sinistra sindacale Cgil) e associazioni e movimenti (Thamaia Onlus, Genus – studi di genere università di Catania, Lila, Chiese battiste e valdesi, RivoltaPagina, Sen, Queers, Comitato San Berillo, Arci gay, Coordinamento studentesco Catania).
In questa occasione si terrà anche un corteo che partirà alle 18,30 da piazza Dante per concludersi in piazza Università dopo avere attraversato via Plebiscito e via Etnea.
Altro appuntamento della giornata è quello delle operatrici di Thamaia, stamattina alle 10, davanti al Tribunale di piazza Verga, luogo simbolo di tante battaglie femministe, dove le donne chiedono giustizia e dove, spesso, sono oggetto di ulteriori soprusi, discriminazioni e violenze. Oggi 8 marzo le operatrici di Thamaia, per la prima volta in tanti anni, si asterranno dal lavoro nell’ambito della campagna «#NonUnaDiMeno #LottoMarzo» e per ribadire la specificità dei centri antiviolenza, «che devono restare luoghi delle donne in cui i saperi e le pratiche femministe costituiscono la metodologia di accoglienza», contro i processi in atto di «ingerenza del patriarcato istituzionale il cui fine è quello di istituzionalizzare i centri antiviolenza e di trasformarli in meri erogatori di servizi gestiti da figure professionali definite». Thamaia denuncia anche il mancato finanziamento di una casa rifugio per donne vittime di violenza familiare in particolare dal Comune che non ha deliberato una spesa di 35.000 euro mentre ne ne spendeva 415.000 per i festeggiamenti della patrona della città.