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Le emozioni di Giuseppe plasmate col ferro per rinascere a nuova vita

Giuseppe Cosentino crea vere e proprie sculture da oggetti senza più utilità. La sua storia è quella di una risalita dalla dipendenza da alcol e droga

Di Enrico De Cristoforo |

Bulloni, ammortizzatori, cuscinetti a sfera, parti di motore. Nascono così, plasmando ciò che comunemente si porta in discarica o viene raccolto da chi guadagna qualche euro con il ferro vecchio, le sculture di ferro di Giuseppe Cosentino, 38 anni, palermitano, uno che conosce bene le difficoltà della vita ma che ha trovato l’ispirazione giusta nell’arte. Giuseppe riesce a dare forma a qualsiasi tipo di oggetto in ferro, gli basta il suo fedele saldatore e un’incudine per trasformare in sculture uniche i suoi pensieri, le emozioni, i ricordi, i sogni. Il tema conduttore sono sempre i figli, 7 e 9 anni, che vivono lontani da lui. Eppure attraverso le sue opere immagina un abbraccio, una gita assieme, la loro festa di compleanno. Tutto riportato fedelmente in queste sculture create da oggetti senza più utilità ma che grazie a lui, alla sua vena artistica, trovano un’anima e riescono a trasmettere messaggi a chi le osserva. 

L’arte è spontanea per Giuseppe, non è mai il frutto di uno studio, di un bozzetto. Non a caso se qualcuno gli commissiona un’opera con un soggetto specifico, lui non riesce a realizzarla perché non è frutto del suo estro, non è una conseguenza emotiva personale. Lui deve creare sul momento:  sparge sul tavolo decine di dadi, rondelle, leve, cilindri e pistoni di auto e moto, viti e poi gli scatta dentro improvvisamente la voglia di dare forma a tutto quel materiale apparentemente inutile. La passione per l’arte è nata dentro Giuseppe Cosentino dalle traversie che ha affrontato fin da quando aveva 13 anni, mentre viveva a Trabia con i suoi genitori. Lì è entrato nel tunnel della dipendenza: «Mi portavo sempre dietro un’irrequietezza che non sapevo spiegare, era rabbia ma non so perché. Ho cominciato a drogarmi alternando anche dosi massicce di alcol. Spacciavo anche metadone, spesso non tornavo a casa e con i miei genitori non parlavo, anzi gridavo. A 16 anni sono andato via dalla Sicilia per vivere in Toscana dove ho vissuto di espedienti, lavoretti vari, insomma quello che mi occorreva per fare qualche soldo e usarlo per le mie dipendenze. Crescevo e non smettevo, ogni tanto ci provavo ma poi ricadevo nella droga. Ero anche instabile mentalmente e infatti combinavo guai di continuo.  Andavo al Sert per entrare nel programma di disintossicazione ma non ero mai costante, anzi ricominciavo». 

In quel periodo Giuseppe non sapeva dominare le emozioni che poi avrebbe tirato fuori attraverso l’arte. Da due anni però è ospite della comunità per dipendenze patologiche, l’Oasi di Caltagirone, una delle strutture considerate fiore all’occhiello dell’associazione Casa Rosetta di Caltanissetta. Qui è esplosa la sua capacità di assemblare le sculture: «Non vedevo i miei figli da tempo – dice Giuseppe Cosentino – e non riuscivo a fare nulla in comunità, mi stavo lasciando andare e per la testa mi balenavano pensieri molto brutti. A quel punto uno degli operatori mi ha spinto a fare qualcosa per loro, come se fossero con me. Di solito svolgo lavori di manutenzione all’interno della comunità, e c’erano dei pezzi di ferro buttati qua e là. Ho avuto un’ispirazione e con un saldatore ho idealizzato i miei figli assemblando pezzo su pezzo. Sentivo che stavo esprimendo le mie emozioni:  dolore, gioia ma anche i sogni  come vedere i due bimbi mentre giocavano sul cavalluccio, o arrampicati su un albero, una passeggiata assieme». L’archeologo e critico d’arte Domenico Amoroso, già direttore del museo civico di Caltagirone, appena ha scoperto le opere di Cosentino le ha subito catalogate come espressione di “Outsider art”: «Le sculture di Giuseppe – dice Amoroso – rispecchiano pienamente il pensiero del  pittore e scultore francese del ‘900, Jeanne Dubuffet. Fu lui a coniare il termine di Outsider art o Art brut, dove questo termine non indica la bruttezza di un’opera ma proprio l’esclusività come uno champagne».  Il critico d’arte calatino aggiunge: «Da anni mi occupo di artisti della marginalità, di persone che hanno conosciuto il carcere, l’ospedale psichiatrico o altre condizioni di vita estreme. Ma come diceva Dubuffet non è che il disagio, la follia, la detenzione producono arte, ma l'arte è così forte che quando c'è si esprime in talune situazioni. Ecco Cosentino è un artista che per la sua situazione, il suo vissuto non ha frequentato scuole specifiche eppure ha manifestato questo talento che a un certo punto è uscito, utilizzando quello che aveva per le mani. La sua arte doveva emergere in qualche modo e avendo fatto il corso per  saldature di metalli è venuta fuori sotto questa forma. Ma Giuseppe avrebbe espresso lo stesso la sua vena artistica se avesse avuto pennelli o pietre. I suoi non sono lavoretti (espressione di creatività, che tutti abbiamo), non è un'esternazione temporanea, ma è arte: lui ha due filoni uno è quello di raccontare la sua storia personale, assistenti sociali, i figli, gli operatori e poi c'è il filone fantastico con guerrieri anche minacciosi, moto e altre figure che sono il risultato delle sue emozioni». 

Ma la svolta di Giuseppe dalle dipendenze non è stata neanche così semplice, come racconta: «Durante il mio percorso riabilitativo litigavo con tutti, non riuscivo a stare tranquillo, buttavo all’aria qualsiasi cosa, mobili, oggetti, insomma anche gli stessi mie compagni non mi sopportavano più. Dopo tre giorni sono scappato ma ci ho ripensato, così tornato in comunità finalmente ho cominciato a creare le sculture: improvvisamente mi venivano in mente vicende che risalivano alla mia infanzia e che avevo rimosso». Anche i rapporti interpersonali sono decisamente migliorati e adesso Giuseppe Cosentino si sente voluto bene da tutti: «Ho degli amici ora, e a diversi di loro ho dedicato le mie opere. Con dei pezzi di vecchia lamiera ondulata rimossa da un tetto ho modellato anche una fenice alta due metri e mezzo, l’ho colorata ed è stata collocata nel cortile della comunità. Per me è un grande onore, ma so che ancora non riesco a camminare con i miei piedi». 

Giuseppe vuole avere il controllo totale di sé per evitare nuovi errori soprattutto davanti ai suoi figli: «C’è un altro pezzo molto significativo che rappresenta molto per me: io che sono in mezzo al fango e il mio operatore che mi tira fuori e mi rimette in piedi. Insomma l’arte mi aiutato tanto a regolare le mie emozioni. Per me è come assaggiare un frutto delizioso, dolce, e non riesco a smettere di mangiarlo». Lui ha un sogno adesso e lo ha anche rappresentato in una delle sue ultime opere: «Andare in giro con i miei figli, finalmente libero dal pensiero tossico del passato». Intanto cresce anche l'attenzione e l'interesse per le sue sculture, in qualche occasione presentate al pubblico. Al di là del manufatto lo spettatore coglie stati d'animo, intuizioni, sentimenti. Come e talvolta più che in certe opere e installazioni esposte e celebrate nelle biennali di prestigio. COPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA