Un detenuto egiziano di 30 anni, recluso nel carcere di Caltanissetta, si è suicidato impiccandosi con le lenzuola alla grata della cella. L’uomo, in carcere dal 2014, avrebbe finito di scontare la pena nel 2018. Il magistrato di sorveglianza aveva da poco rigettato la sua richiesta di espulsione. Quello di oggi è l’undicesimo suicidio di detenuti dall’inizio dell’anno.
«L’uomo che si è impiccato nella cella stanotte era arrivato a Caltanissetta dal carcere di S. Cataldo, dove si era reso protagonista di più eventi che avevano turbato l’ordine e la sicurezza interna – il segretario generale del Sappe Donato Capece – . Proprio ieri gli era stata negata l’estradizione al suo Paese, ma non è accertato che questo possa avere attinenza con il grave gesto di cui si è reso responsabile. Sappiamo che ha lasciato un messaggio, ma è massimo il riserbo sui contenuti. I quattro detenuti suicidi tra le sbarre di altrettanti detenuti in una settimana sono il segno tangibile di come i problemi sociali e umani permangono nelle carceri del Paese, nonostante l’attenzione e la vigilanza del personale di Polizia Penitenziaria, spesso lasciato solo a gestire queste situazioni di emergenza».
Il suicidio, aggiunge il sindacalista, «è spesso la causa più comune di morte nelle carceri: gli istituti penitenziari hanno l’obbligo di preservare la salute e la sicurezza dei detenuti, e l’Italia è certamente all’avanguardia per quanto concerne la normativa finalizzata a prevenire questi gravi eventi critici. Ma il suicidio di un detenuto – conclude Capece – rappresenta un forte agente stressogeno per il personale di polizia e per gli altri detenuti. Per queste ragioni un programma di prevenzione del suicidio e l’organizzazione di un servizio d’intervento efficace sono misure utili non solo per i detenuti ma anche per l’intero istituto dove questi vengono implementati».