Per anni, scorrendo tra le pagine delle sue agende personali, ci si è chiesti a cosa facesse riferimento il giudice Rosario Livatino con la sigla “S-T-D”. Lungi dall’essere un’indicazione a proposito di qualche malvivente che lo perseguitava, come all’inizio sospettò chi indagò sul suo omicidio, quelle lettere racchiudono tutto il senso della vita, privata e professionale, del magistrato di Canicatti: Sub tutela Dei. Oggi, quella formula rivive in una mostra dedicata alla straordinaria figura dell’uomo di legge e di fede ucciso dalla mafia nel 1990 che verrà inaugurata il 16 febbraio, alle ore 16.00 presso l’aula delle adunanze del Palazzo di Giustizia di Catania. L’esposizione si inserisce nel filone di incontri dedicato al tema della giustizia riparativa “Oltre la pena. Incontrare persone. Ricomporre relazioni”, promosso dalla Fondazione Francesco Ventorino, dall’Arcidiocesi di Catania, dal Centro Culturale di Catania e dalla Fondazione Sant’Agata, e sarà fruibile dal 17 al 25 febbraio presso la Galleria di Arte Moderna di Via Castello Ursino, 26, Catania, dalle ore 9.00 alle ore 13.00 e dalle ore 14.30 alle ore 19.00. Per prenotare una visita guidata l’indirizzo è: mostra.livatino.catania@gmail.com.
«Volevamo rendere omaggio ad una figura che ha trasformato l’ordinarietà della sua vita in un’esperienza di fede e testimonianza. L’intento – spiega l’avvocato Paolo Tosoni, tra i curatori della mostra e ospite dell’inaugurazione – è offrire un quadro esaustivo delle qualità umane e professionali di Livatino, in modo tale che ciascuno dei visitatori possa lasciarsi ispirare dalla sua figura esemplare». Del giudice di Canicattì, infatti, la mostra scandaglia attentamente ogni aspetto della formazione, dell’operato professionale e del costante accostamento alla fede.
C’è spazio per ripercorrere la sua giovinezza e il suo precoce impegno con Azione Cattolica in una Sicilia fortemente afflitta dalle tentacolari infiltrazioni mafiose. Ma anche per la profonda umanità che lo spingeva a guardare con occhi carichi di pietà anche il peggiore dei malviventi, senza mai cedere alla tentazione del rancore. «Compito del magistrato – affermò Livatino durante la conferenza “Fede e diritto” all’Istituto Suore vocazioniste di Canicattì del 30 aprile 1986 – non deve essere solo quello di rendere concreto nei casi di specie il comando astratto della legge, ma anche di dare alla legge un’anima, tenendo sempre presente che la legge è un mezzo e non un fine».
Si passa poi alle testimonianze che restituiscono la dimensione di quanto complicato fosse, all’epoca, indagare sui reati di mafia. In un contesto socio-culturale profondamente asservito alle logiche criminali e aduso all’omertà, limitato per di più da un codice normativo ancora privo di strumenti che in seguito si sarebbero rivelati fondamentali, Livatino seppe ritagliare alla giustizia il suo legittimo spazio con intelligenza, passione e umiltà. Nelle parole degli amici e dei parenti che hanno voluto condividere degli aneddoti personali, emerge come, nonostante la grande sete di verità che lo contraddistingueva, egli non si facesse mai distogliere dal proposito di inseguire il bene comune. Né dalla convinzione che tutti gli uomini sono apparentati da una dignità di fondo che va valorizzata, anche a fronte delle colpe di cui ci si è macchiati.
Fu proprio il suo amore per il bene comune ad attirargli le attenzioni dei mafiosi. Le installazioni, in questo senso, ricostruiscono con dovizia di particolari le ragioni alla base del suo assassinio e le efferate modalità con le quali fu compiuto. Fondamentale, a tal proposito, la testimonianza oculare di Piero Ivano Nava, che quel giorno, trovandosi in Sicilia per ragioni di lavoro, assistette alle fasi dell’omicidio e di cui uno dei pannelli ricostruisce la sua difficile storia. Benché, infatti, il suo contributo fosse stato decisivo per l’identificazione dei killer, lo Stato non fu capace di proteggerlo adeguatamente (solo nel 2001 entrarono in vigore i primi provvedimenti a tutela dei “testimoni di giustizia”), costringendolo ad una vita da fuggiasco che dura ancora oggi.
Viene, infine, ricostruita la prassi di beatificazione, culminata nella celebrazione tenutasi nella Cattedrale di San Gerlando ad Agrigento. Ma anche l’eredità che la parabola esistenziale di Livatino ha saputo imprimere nel nostro tempo, specie in relazione alla lotta portata avanti dalla Chiesa contro la mafia. Al ricordo di tanti uomini e donne che hanno avuto modo di conoscerlo, si aggiungono le foto di due lettere dal grande valore. Furono scritte, infatti, da Salvatore Calafato e Domenico Pace, rispettivamente uno dei mandanti e degli esecutori dell’omicidio, e contengono parole di profondo e sincero pentimento. Quasi un cerchio che si chiude. E che getta ulteriore luce sull’eccezionalità della sua vita. Perché, come disse Papa Francesco in un discorso tenuto nel 2019 presso il Centro Studi Rosario Livatino e come uno dei pannelli della mostra puntualmente ricorda, «Livatino è un esempio non soltanto per i magistrati, ma per tutti coloro che operano nel campo del diritto: per la coerenza tra la sua fede e il suo impegno di lavoro, e per l’attualità delle sue riflessioni».
L’inaugurazione sarà introdotta da Claudio Sammartino, già prefetto della Repubblica, e da Don Piero Sapienza, Direttore dell’Ufficio Diocesano per i Problemi Sociali e il Lavoro.