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Stefano Bollani: «Con la mia musica vi porto tra le strade di Rio»

Di Giorgio Romeo |

«Credo che il Bra­si­le sia un po’ re­spon­sa­bi­le del­la mia fame per tut­te le mu­si­che del mon­do». A die­ci anni dal­la pub­bli­ca­zio­ne del ce­le­bra­to al­bum “Ca­rio­ca”, in cui rein­ter­pre­ta­va a suo modo clas­si­ci come “Sam­ba e amor” e “Tico tico no fubà”, Ste­fa­no Bol­la­ni ci ri­por­ta tra le stra­de di Rio con un nuo­vo pro­get­to, sta­vol­ta in­cen­tra­to su com­po­si­zio­ni ine­di­te. “Que Bom” è il ti­to­lo del di­sco re­cen­te­men­te pub­bli­ca­to dal pia­ni­sta mi­la­ne­se, che sarà pre­sen­ta­to dal vivo do­me­ni­ca 4 (ore 21:00) sul pal­co­sce­ni­co del Tea­tro Me­tro­po­li­tan di Ca­ta­nia in­sie­me alla band for­ma­ta da Jor­ge Hel­der al con­trab­bas­so, Ju­rim Mo­rei­ra alla bat­te­ria e ad Ar­man­do Ma­rçal e Thia­go da Ser­ri­n­ha alle per­cus­sio­ni.

Se guar­dia­mo alla sto­ria del jazz, fin dai tem­pi di Nick La Roc­ca, ogni vol­ta che un mu­si­ci­sta ita­lia­no ha var­ca­to l’o­cea­no ha la­scia­to qual­co­sa e ha pre­so qual­co­sa in cam­bio. Tu cosa hai pre­so dal Bra­si­le e cosa vi hai la­scia­to?«Cosa ho la­scia­to è po­chis­si­mo. In com­pen­so ho ru­ba­to un sac­co. I bra­si­lia­ni vi­vo­no di sin­cre­ti­smo ar­ti­sti­co, man­gia­no le cul­tu­re al­trui e le rein­ven­ta­no. Il rock bra­si­lia­no, ad esem­pio, è una cosa che non so­mi­glia a nien­t’al­tro. La mu­si­ca bra­si­lei­ra è fat­ta da per­so­ne che ma­ga­ri ascol­ta­va­no Hen­drix e i Bea­tles ma poi li fa­ce­va­no di­ven­ta­re qual­co­s’al­tro. Ho at­tin­to da que­st’at­ti­tu­di­ne, che poi è la stes­sa dei pri­mi jaz­zi­sti, i qua­li si sono tro­va­ti a ma­neg­gia­re una mu­si­ca che ve­ni­va un po’ da­gli afri­ca­ni, un poi dai po­lac­chi, un po’ da­gli ita­lia­ni. Que­sto nuo­vo di­sco na­sce dal­la vo­glia di tor­na­re a Rio per far­mi cir­con­da­re dal­le per­cus­sio­ni – per­ché il pia­no­for­te fa par­te del­la loro stes­sa tri­bù – e dal de­si­de­rio di ave­re ospi­ti una se­rie di ami­ci. Con uno di essi, Ha­mil­ton De Ho­lan­da, suo­no spes­so, men­tre è sta­ta la pri­ma vol­ta che ho in­ci­so con João Bo­sco, Jac­ques Mo­re­len­baum e Cae­ta­no Ve­lo­so».

Vivi la mu­si­ca come un la­vo­ro?«No, anzi sono mol­to con­ten­to di non la­vo­ra­re e non ca­pi­sco per­ché la gen­te con­ti­nui a riem­pir­si la boc­ca di que­sta pa­ro­la come se fos­se la cosa più im­por­tan­te. Nel­la vita la cosa più im­por­tan­te è la so­prav­vi­ven­za, che è pos­si­bi­le an­che cu­ran­do il ter­re­no e man­gian­do ciò che si col­ti­va. Ve­de­re il la­vo­ro come “fare qual­co­sa ob­bli­ga­ti da un pa­dro­ne per ot­te­ne­re dei sol­di” è un’i­dea che ho sem­pre cer­ca­to di evi­ta­re».

Ne­gli ul­ti­mi anni il jazz si suo­na sem­pre più nei tea­tri e sem­pre meno nei club. A cosa è do­vu­to que­sto cam­bia­men­to? Cre­di sia pos­si­bi­le che que­sta mu­si­ca tor­ni ad es­se­re “po­pu­lar”?«Si trat­ta di una mu­ta­zio­ne av­ve­nu­ta un po’ ovun­que, del­la qua­le è dif­fi­ci­le pre­ve­de­re l’e­si­to. In ge­ne­ra­le, se pen­sia­mo alla sto­ria del mon­do, il con­cer­to dal vivo è una cosa che si fa da po­chis­si­mi anni, ma la mu­si­ca esi­ste da sem­pre. Si può suo­na­re per un ma­tri­mo­nio, un fu­ne­ra­le, come omag­gio agli spi­ri­ti op­pu­re agli dei. Noi tut­ta­via ci di­men­ti­chia­mo spes­so di que­sta di­men­sio­ne so­cia­le e pen­sia­mo sol­tan­to ai di­schi e alla mu­si­ca dal vivo dove si paga il bi­gliet­to. In en­tram­bi i casi, tut­ta­via, si trat­ta di cose re­la­ti­va­men­te re­cen­ti, e che in quan­to tali po­treb­be­ro spa­ri­re».

Cosa ascol­ta Ste­fa­no Bol­la­ni? E come va­lu­ti la mu­si­ca che vie­ne pro­dot­ta oggi? Stia­mo tor­nan­do alla Mu­zak o c’è qual­co­sa di buo­no, a pat­to di sa­per­la cer­ca­re?«Ascol­to tan­tis­si­ma mu­si­ca del pas­sa­to, quel­la dei miei ispi­ra­to­ri. Uno dei van­tag­gi di You­Tu­be e del web in ge­ne­ra­le è che ha an­nul­la­to le dif­fe­ren­ze spa­zio tem­po­ra­li, per cui tut­ti con un sem­pli­ce clic pos­so­no ve­de­re un vi­deo del ’63 o ascol­ta­re un di­sco del ’52 e tut­to sem­bra del­la stes­sa epo­ca. Que­sta è una cosa po­si­ti­va per­ché ci ri­cor­da che la mu­si­ca è una cosa uni­ver­sa­le. Io ascol­to mu­si­ca del pas­sa­to, ma che mi par­la del pre­sen­te, ciò che vivo. Non di­stin­guo mol­to tra il nuo­vo di­sco di Ka­ma­si Wa­shing­ton e uno di Char­les Min­gus».

Che im­pat­to ha tut­to que­sto sui gio­va­ni e sul­la loro sco­per­ta del­la mu­si­ca?«I gio­va­ni han­no din­nan­zi a loro un enor­me cal­de­ro­ne in cui si può tro­va­re di tut­to, a pat­to di sa­per pe­sca­re. A fare que­sto, però, non t’in­se­gna nes­su­no: c’è chi si è in­na­mo­ra­to del­la mu­si­ca per­ché a otto anni ha sen­ti­to Ger­sh­win, c’è chi lo ha fat­to per­ché a quin­di­ci ha sen­ti­to Hen­drix o i Cold­play. Però è una chia­ve da cui vai per as­so­nan­za: ti piac­cio­no i Bea­tles? Pro­va ad ascol­ta­re gli Sto­nes. Poi per ra­mi­fi­ca­zio­ni di­se­gne­rai la tua map­pa di pia­ce­ri mu­si­ca­li».

In que­sto con­te­sto, qual è il ruo­lo del­l’in­se­gna­men­to del­la mu­si­ca a scuo­la? E in che modo si può edu­ca­re al­l’a­scol­to?«È dif­fi­ci­le co­strin­ge­re la gen­te ad ama­re la mu­si­ca. Ciò che si può fare è for­ni­re de­gli spun­ti, fa­cen­do ascol­ta­re ai gio­va­ni quel­li che con­si­de­ria­mo dei ca­po­la­vo­ri per sti­mo­la­re le loro rea­zio­ni. La cosa più im­por­tan­te da fare, in­ve­ce, è coin­vol­ge­re in at­ti­vi­tà che met­to­no in gio­co tut­to il tuo cor­po, non solo la te­sta. Suo­na­re, can­ta­re, bal­la­re, sono modi per fare ar­ri­va­re la mu­si­ca drit­ta al cuo­re».COPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA

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