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La sfida della qualità nel giornalismo digitale: «Con l’approfondimento sopravvivremo ai robot»

Di Redazione |

TORINO. «Analizzando i dati delle visite del nostro sito ci siamo resi conto che il pubblico legge con più interesse le notizie maggiormente approfondite. Probabilmente nell’era del digitale a qualcuno questo format potrà apparire antico, eppure tutt’oggi funziona benissimo». A parlare è Lydia Polgreen, direttrice di Huffington Post (Usa), tra i relatori del convegno “The future of newspapers”, organizzato da “La Stampa” a Torino per concludere le celebrazioni dei 150 anni del quotidiano piemontese. L’incontro ha coinvolto il gotha del giornalismo mondiale in un dibattito che ha fatto emergere opinioni e visioni divergenti sul futuro dell’editoria. A fronte di diverse strategie – che vedono ciascuna testata puntare sugli abbonamenti o sulla pubblicità, sulla carta stampata o sul mercato online – tuttavia, vi è stato un unico comune denominatore: quello della qualità. «Dobbiamo ripartire dall’informazione che fa la differenza, non replicabile e di altissimo livello», ha spiegato Carlo De Benedetti. Un concetto questo non lontano da quelli espressi da altri relatori. Louis Dreyfus, CEO di “Le Monde”, ha spiegato come oggi ci sia bisogno di «affidabilità, esclusività e creatività» sperimentando, facendo nuovi investimenti e «accettando il fallimento quando questo occorre». Lionel Barber, direttore del “Financial Times”, ha invece posto l’accento sull’importanza di chiederci «cosa possiamo fare per rendere i giornali unici e distintivi», proponendo poi l’idea di soffermarsi sulle edizioni del week end, solitamente lette con maggiore attenzione. Ma cosa significa fare giornalismo di qualità oggi? E come possiamo interpretare questo concetto in un prodotto digitale che si trova ad operare in un contesto in cui gli utenti sono ormai convinti di non aver bisogno di intermediari?

Carlo De BenedettiNON SAREMO SOSTITUITI DAI ROBOT. «Meno deskisti, più reporter e molta più rilevanza». Nella ricetta del direttore di Repubblica, Mario Calabresi, c’è un invito a guardare al passato per svoltare verso il futuro. L’idea è quella di uno “slow journalism” che faccia la differenza, in cui il ruolo del giornalista è insostituibile. Del resto, se da un lato l’automatizzazione sta progressivamente sostituendo i redattori in alcune mansioni (Bloomberg, per ammissione del direttore John Mickletwait, lo sta già facendo con notizie come i report della borsa), è fuori discussione l’idea che un robot possa surrogare un commentatore o un reporter sul campo. Il futuro del giornalismo, insomma, è ancorato alla capacità di chi scrive di offrire a chi legge la possibilità di sviluppare una propria coscienza critica, anche (e soprattutto) quando i social media creano la falsa percezione di possedere una verità, che spesso – per la natura stessa degli algoritmi – si rivela essere un pensiero unico. In che modo è possibile far arrivare questo concetto? Se, come ha spiegato Jeff Bezos, la sostenibilità del giornalismo d’inchiesta è ancorata alla creazione di contenuti a pagamento, come confrontarsi con una generazione, quella dei cosiddetti “millennials”, che non sembrerebbe essere disposta a investire il proprio denaro per informarsi su internet? «Il nostro obiettivo al momento – spiega Andrew Ross Sorkin, editorialista del New York Times e fondatore di DealBook – è quello di coinvolgerli il più possibile grazie a narrazioni avvincenti. Dobbiamo essere il “Games of Thrones” del giornalismo e, a dire il vero, in questo momento storico Trump ci sta aiutando molto. Se la percezione delle nuove generazioni sarà quella di “essersi persi” qualcosa di importante quando non si legge un certo contenuto, la tendenza potrà cambiare».

LE FAKE NEWS E LA POST VERITA’. «Credere che in passato abbiamo vissuto in “un’età dell’oro della verità”, ora perduta per sempre, può essere una tentazione confortante di fronte a molti eventi del presente, ma probabilmente significherebbe forzare la mano alla storia». Durante il suo discorso, svoltosi a chiusura dell’evento a Palazzo Reale, il presidente del consiglio Paolo Gentiloni ha posto l’accento sul dibattuto tema della post verità, ricordando come essa sia sempre esistita e rilanciando un’idea sul giornalismo di opinioni. «Probabilmente – continua il premier – invece di inseguire il mito dall’assoluta imparzialità, sarebbe importante creare un modello di giornalismo “radicato nei fatti” piuttosto che completamente privo di opinioni».

LA SOSTENIBILITA’. Come è possibile sostenere i costi del giornalismo di qualità? Secondo De Benedetti sarà necessario combattere la logica del “good enough”, ovvero rispondere ai “contenuti di media qualità a costo zero”, con contenuti di fattura eccellente. Cosa significa, tuttavia, fare inchiesta oggi? «Quando si parla di giornalismo investigativo – spiega ancora Lionel Barber – spesso si pensa al Watergate, ma creare articoli di approfondimento può significare anche altro, ad esempio parlare della condizione della donna in certi angoli dell’Africa». Insomma, se da un lato la disponibilità economica degli editori oggi non consente loro di sostenere grandi spese per i reporter, dall’altro la questione concerne più che altro il metodo. Torniamo, ancora una volta, alla capacità del giornalista di offrire prospettive diverse grazie a un’analisi della realtà, che non necessariamente si trova dall’altra parte del mondo. Non è allora un caso, allora, che il presidente Gentiloni abbia concluso il suo discorso citando George Orwell: «Vedere ciò che si trova davanti al nostro naso richiede un impegno costante».

 Il Ceo di "Le Monde", Louis Dreyfus e quello del South China Morning Post, Gary Liu (foto G.Romeo)Il Ceo di “Le Monde”, Louis Dreyfus e quello del South China Morning Post, Gary Liu (foto G.Romeo)

UNA FINESTRA SU UN TERRITORIO. Che valore può avere oggi un giornale che racconta in maniera approfondita e analitica un territorio? E come esso può sfruttare la capacità di essere distribuito digitalmente in tutto mondo? Se nel rilancio del Washington Post a opera del nuovo proprietario Jeff Bezos è stata determinante la volontà di trasformare un quotidiano territoriale in una realtà letta anche fuori dal nord America, come può un giornale che non gode di una tradizione così forte (e non può vantare tra le sue inchieste un caso come il Watergate che costrinse Nixon alle dimissioni) sfruttare la globalizzazione per creare nuovi modelli di business? Una risposta potrebbe essere quella di un approccio con una lingua diversa. «Il nostro quotidiano – spiega Gary Liu, CEO del “China Morning Post” – ha sede a Hong Kong ed è in lingua inglese. Sebbene, proprio per questo motivo, esso venga letto oggi solo da una piccola parte della popolazione cinese, la nostra mission è anche quella di informare il resto del mondo su cosa accade nel mio paese, che probabilmente presto diventerà la prima economia mondiale».

LA SFIDA DI SICILIAN POST. Sarà possibile raccogliere queste sfide anche in un contesto come quello siciliano? A breve “Sicilian Post” affiancherà a quella italiana un’edizione in lingua inglese, con l’intento di raccontare la Sicilia nel mondo. Il nostro progetto editoriale – che si pone in dialogo e collaborazione (e non in concorrenza) con realtà storiche come il quotidiano “La Sicilia” – si prefigge di fare dell’approfondimento e della qualità il proprio caposaldo. Il nostro giornale è realizzato da giovani convinti che le nuove generazioni, in una fase di cambiamento di epoca, non saranno succubi della crisi, ma interpreti del cambiamento. Un cambiamento che non mancherà di riservarci sorprese e sfide entusiasmanti. Il meglio deve ancora venire.COPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA