Sicilian Post
La chiave della felicità: le parole di Verga ci giungono al cuore più attuali e vere che mai
Romantico e disilluso, raffinato ma analiticamente amaro, conservatore di valori e sicurezze eppure innovatore come pochi. Sarebbero questi soltanto alcuni dei tratti che si potrebbero delineare se venisse richiesto di tracciare l’identikit culturale e umano di Giovanni Verga, scrittore simbolo dell’eccellenza siciliana e cardine dell’intera storia letteraria nazionale. A testimonianza della sua grandezza, a 97 anni dalla sua scomparsa, avvenuta il 27 gennaio del 1922, non risulta possibile esimersi da una riflessione sul suo lascito e sul messaggio che ancora oggi le sue opere possono veicolare. Perché, da buon classico qual è, Verga non smette di suscitare, nelle generazioni che si avvicendano, un istintivo senso di riverenza e di empatica curiosità verso un autore che, spesso fin troppo superficialmente, viene catalogato come fosco pessimista e che, invece, cela tra le sue pagine piccoli ma lucenti bagliori di speranza.
Dalla Capinera alle sventurate figure delle novelle come Rosso Malpelo e Nedda, passando per gli impietosi e grandiosi quadri storico-sociali contenuti nei grandi romanzi (I Malavoglia e Il Mastro-don Gesualdo), senza considerare esempi meno noti al grande pubblico come la suicida Narcisa di Una peccatrice, non c’è dubbio che Verga abbia consegnato all’immaginario letterario personaggi in continua lotta contro un destino crudo e avverso, che spesso, nonostante gli estremi tentativi di rivalsa, sono inevitabilmente finiti per soccombere di fronte alla violenza dell’esistenza. Sembrerebbe non ci sia scampo né nel movimento di fuga né nella statica resistenza; né nell’ascesa verso il vertice della piramide sociale né nell’incessante dimenarsi degli strati inferiori. Che siano fanciulli o anziani saggi, il vortice della disgrazia sembra non risparmiare nessuno. Ma qui, nel discernere la peculiarità verghiana, nel porgere orecchio al suo appassionato appello, sta la chiave per entrare nello scrigno dei suoi segreti e apprezzarlo pienamente. Più che inveire contro la sorte malvagia, infatti, Verga si preoccupa di mettere a punto un vero e proprio meccanismo di difesa: consapevole che nel corso della vita umana la felicità assoluta non esiste o è soltanto un effimero senso di pacatezza, lo scrittore siciliano ci invita a chiamare a raccolta le nostre certezze, i nostri affetti, i momenti a cui siamo più intimamente legati e a farne uno strumento di caparbia sopravvivenza.
Il porto di Catania fotografato da Verga
Presi come siamo dalla smania di desiderare sempre qualcosa in più, convinti che l’altrove sia sempre foriero di miglioramento, spesso e volentieri finiamo per non avvederci che dentro questa frenetica ricerca ci frantumiamo in mille cocci impossibili da ricomporre. È quella che lo stesso Verga definì la fiumana del progresso, che coi suoi flutti impetuosi ci travolge e ci fa perdere di vista la direzione da seguire. Maestro nel tratteggiare vivide e strazianti passioni, nel riprodurre le dinamiche più elevate e più abiette dell’agire umano, in un’epoca come quella attuale in cui velocità e corsa al guadagno la fanno da padrone dovremmo riconsiderare la valenza del celebre ideale dell’ostrica, non più come condanna deterministica alla sofferenza universale, ma rimedio, seppur parziale, contro la perdita di noi stessi. Tra le pagine verghiane, insomma, si muove l’intero panorama degli esseri umani, occupati a preservare con le unghie e con i denti il proprio posto nel mondo. Imparare a coltivare ciò che si ha, ad ambire a migliorarsi senza incoscienze e senza esporsi alla ferocia dell’ignoto, a dedicarsi disinteressati ai legami che instauriamo, può essere il modo migliore per approfittare di questa commemorazione. Giovani e meno giovani, sicuri che Verga sia solo una voce lontana del passato?
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