Giovanni Chiaramonte e la sua “Ultima Sicilia”: «La fotografia trasforma l’istante in permanenza»

Di Giorgio Romeo / 09 Maggio 2017

«Ho scattato queste foto nel luglio 1970, all’età di 21 anni. Allora ero uno studente di filosofia e per la prima volta decisi di affrontare il tema dell’immagine attraverso la fotografia, dedicando un mese a fotografare quella parte di Sicilia. Dopo l’estate stampai pochissime di queste immagini. Paradossalmente avevo deciso che la fotografia era il mio cammino ma mi dimenticai completamente di questo mio primo lavoro». Uno sguardo alle origini per sottolineare come l’istante possa divenire permanenza. Questo il cuore dell’incontro che il fotografo varesino Giovanni Chiaramonte ha tenuto lo scorso venerdì al Dipartimento di Agraria dell’Università Mediterranea di Reggio Calabria per il ciclo “Andare/Restare: comunque in movimento” coordinato dal prof. Salvatore Di Fazio. Durante l’evento è stato presentato il volume “Ultima Sicilia” (Edizioni Postcart,2016). «Quando nel 2015 il professor Arturo Carlo Quintavalle mi chiese di vedere le mie prime immagini mi sono sentito un idiota, nel senso etimologico della parola greca: colui che pur abitando in una città non la condivide e sta per fatti suoi. Del resto il dramma dell’umano, è la consapevolezza che l’origine che ci ha dato vita è persa. Ma l’uomo deve mettersi in cammino e dopo alcuni giorni passati a cercare alcune agende ne ho trovata una che mi ha detto che nel 1970 ero stato in Sicilia e che i negativi raccontavano un mondo lontano nel tempo, che riappariva dal buio di fronte a me».


© Giovanni Chiaramonte (Postcart Edizioni)

«La fotografia è uno strumento inventato dalla civiltà occidentale affinché ciò che vediamo – attraverso un movimento semplicissimo, un clic – permanga per sempre in un’immagine e abbia memoria eterna». Nella concezione di Giovanni Chiaramonte l’istante è permanenza: la foto immortala ciò che stiamo vedendo nella condizione esistenziale in cui ci troviamo. Per il professore, l’avventura della fotografia va di pari passo con quella della cultura occidentale: «Galileo inventò l’obiettivo sfruttando la prospettiva, che nasce con la pittura italiana, mentre Dante ha costruito un poema basato sul visivo. Nella Divina Commedia l’uomo comprende il dramma e il limite della sua vita, cercando una sua redenzione nell’atto del “vedere” le azioni dell’uomo nella storia: l’inferno del male, la montagna del purgatorio e, infine, la luce infinita». Ma se per Dante il fondamento dell’uomo è vedere l’infinito, in fotografia “mettere a fuoco l’infinito” vuol dire che il punto di fuga su cui si costruisce l’immagine prospettica va individuato in una categoria spaziale che corrisponde a una categoria temporale: l’eterno. «La fotografia – spiega ancora il professore – è fatta dall’io dell’uomo, che seppure invisibile è definito nel tempo (e scandito dalla morte) ma non nello spazio. È l’io a determinare che si faccia “clic”».


© Giovanni Chiaramonte (Postcart Edizioni)

Tra gli incontri che più hanno segnato la vita del fotografo c’è stato sicuramente quello con il professor Emanuele Severino, esponente del neo-parmenidismo secondo cui ogni cosa, ogni attimo sono eterni e gli enti entrano nel “cerchio dell’apparire”, diventando invisibili quando ne escono. «All’esame – racconta ancora – successe un casino poiché avendo iniziato a fotografare non avrei mai potuto accettare l’idea che il divenire sia apparenza e l’istante non conta nulla. È invece l’istante che apre la via della permanenza, sennò vorrebbe dire che io e gli altri io, cioè gli umani, sono nulla». Ma come si relaziona il pensiero di Chiaramonte a questa sua ultima raccolta fotografica? «Nel paradosso della vita – ha chiosato il grande fotografo – è alla fine che comprendi l’inizio, per cui non è un caso che io abbia pubblicato questo libro alla fine della vita. La Sicilia è “ultima” perché appena arrivata, come siamo arrivati noi qui. L’augurio è che, prendendo spunto dalla fotografia, ogni nuovo momento che vivrete diventi degno di essere ricordato in un’immagine. Fotografare vuol dire fare di ogni istante un permanere: quell’immagine è come un seme che si pianta, attraversa il tempo e diventa altro».


Foto Giacomo Falcone

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Pubblicato da:
Redazione
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