Come ogni anno si inizia a parlare di turismo in Sicilia e come ogni anno inizio a immaginarmi tutti, siciliani e turisti insieme, flashati di fronte al turismo in Sicilia che è cultura. Si aggirano per l’isola con quella curiosità e competenza e ispirazione e profondità e sospiri che dona loro una sagacia bovina.
Certo, la colpa è dei politici che appena sentono cultura si eccitano, si sentono subito non solo governanti (da “governante”, quella che si occupa delle pulizie di casa) ma governanti illuminati, come se la “cammarera Adelmina” se ne andasse in giro sbrizziando spirito luminoso in posa plastica (posa standard degli assessori).
Eppure non tutta la colpa è loro. La causa di questo delirio estivo, di questo colpo di sole spirituale, è da ricercarsi nel Settecento, quando giuovini europei senza una mazza da fare si imbarcavano nel cosiddetto “Grand Tour”, un viaggio per l’Europa direzione Sicilia.
E’ bene tenere presente che costoro viaggiavano in carrozza, lungo strade sterrate, e che il viaggio durava mesi se non anni. Essi approdavano prima a Parigi, dove si vestivano alla moda (ci vogliono nove sarti per fare un signore), quindi, vestiti da cicisbei pazzi, si incarrozzavano verso di noi, con le meningi sballottate tra le pareti della vettura, in compagnia del precettore che lo acculturava.
E’ facile supporre che, dopo la traversata sullo stretto insieme alla carrozza, ai cavalli, allo sbalorditivo bagaglio, alle infezioni intestinali, alle irritazioni inguinali, alle pulci e ai pidocchi, con la faccia gonfia dagli alcolici (fallo tu un viaggio del genere senza alcolici), arrivassero in Sicilia con la bavetta alla bocca e il cervello in pappa.
Perfino Goethe, l’uomo più intelligente dell’epoca, cominciò a farsi ritrarre con un lenzuolo a guisa di peplo sugli abiti francesi, un cappellone, sdraiato come Paolina Bonaparte, sguardo a scrutare l’orizzonte, e la cosa più intelligente che gli venne in mente sbarcando in Sicilia fu: “La terra dove fioriscono i limoni”. Ma va?