Il pozzo buio che ha inghiottito Lucia è quello, profondo, della nostra rimozione. La rimozione di un massacro – quello delle donne – che non si ferma, non arretra, non finisce. Di fronte ad una strage inesauribile, che registra, tra l’altro, di anno in anno, l’abbassamento dell’età delle vittime, è ora di pretendere che le leggi vengano applicate davvero soprattutto in una società violenta, quella in cui viviamo, in cui il senso del possesso è amplificato anche dal “controllo” dei social.
Una denuncia per stalking non basta più, le aggravanti dei futili motivi, dell’essere consangunei, della particolare ferocia con cui vengono spesso compiuti questi omicidi, sono ormai troppo poca cosa in un’aula di giustizia.
Serve una legge “vera” contro il femminicidio, parola brutta, sgradevole anche da pronunciare, sicuramente sbagliata da un punto di vista giudiziario: «Un omicidio è un omicidio e basta», è il refrain nelle aule di giustizia. Sarebbe così in un Paese in cui la violenza di genere fosse un problema serio, un Paese in cui, ad una donna che si rivolge ad un commissariato di polizia o ai carabinieri perché il compagno la prende a sberle, non dovesse capitare di sentirsi rispondere «signora, se ne torni a casa e prepari un bella cena a suo marito». Antonietta Gargiulo, la donna di Cisterna sopravvissuta alla morte delle sue figlie ad opera del marito carabiniere, aveva parlato, aveva avvertito di quell’uomo violento. Eppure, dopo la commozione, il pianto, i funerali, gli speciali in tv, la “rimozione” è intervenuta ancora una volta. In qualsiasi altra “categoria” – ci vogliamo chiamare così? – si fosse verificata una mattanza di oltre cento persone l’anno, il problema avrebbe assunto i connotati di “caso nazionale”.
Se uccidessero cento metalmeccanici l’anno, cento professori l’anno, cento giornalisti l’anno, cento netturbini l’anno, non parleremmo di allarme? Eppure 114 donne l’anno non bastano. E non bastano – tristemente – per il semplice fatto di essere donne in questo Paese.
I numeri della violenza servono solo ai pallottolieri dell’Istat o alle classifiche pubblicate sui giornali. Nel 2017 in Italia sono state uccise 114 donne (il 77,2 per cento nell’ambito familiare) e il 2018 non promette un trend diverso. Numeri che si vanno a ripescare ad ogni 8 marzo, ad ogni 25 novembre (Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne) ma poi, nel quotidiano, regna sempre l’assuefazione alla violenza, anticamera della rimozione. Soprattutto quella verbale. Ne è un esempio, l’irrilevanza che viene data alla declinazione al femminile degli incarichi delle donne, osteggiata anche da chi con le parole ci lavora. A partire da noi giornalisti che con troppa superficialità scriviamo ancora “raptus di follia” di un padre-marito-compagno omicida il quale magari s’è portato l’alcol da casa per dar fuoco alla donna della sua vita, o che “la separazione è stata causa della violenza” quando è stata la violenza la causa della separazione.
Per non parlare del fatto che intitolare una strada ad una donna sia ancora una notizia, delle quote rosa in politica o delle teorie gender a scuola. Il mantra del “problema culturale” l’abbiamo introiettato, ma poi sono le stesse istituzioni culturali (salvo rare e magnifiche eccezioni) a girarsi dall’altra parte. Per quanto tempo ancora dovremo aver “paura” di affrontare un problema ormai enorme? Ogni due giorni e mezzo viene uccisa una donna in Italia. E con lei se ne va un pezzo di società, un pezzo di Paese, un pezzo di futuro. E il futuro di una ragazza di vent’anni non è negoziabile “per rimozione”.