Se a Vizzini chiedete di Manazza, vi indicheranno la statua di Giovanni Verga (1840-1922) in piazza Marconi. Il nomignolo da anni è il cruccio di Carmelo Verdi, maestro in pensione. Anch’egli però deve ammettere che sono veramente sproporzionate le mani dello scrittore, e giustificato l’appellativo per un monumento che aveva fortemente voluto quand’era assessore al Comune. Lui, proprio lui originario di Licodia Eubea, si era battuto perché fosse colmato un vuoto: il paese rendesse omaggio allo scrittore che tanto lustro gli aveva dato, inserendolo con i suoi scritti tra i luoghi dell’immaginario universale. Della realizzazione del monumento però non è responsabile.
Il modello, realizzato a Catania, fu scelto da altri e rimase incompleto: quelle manazze dalle lunghe dita nell’idea originaria avevano uno scopo, avrebbero dovuto accarezzare, o seminare, sotto di sé i personaggi partoriti dalla fantasia di Verga e legati a Vizzini. Sono rimaste invece sospese nel vuoto ad afferrare l’aria. Ad accrescere il cruccio, si aggiunge lo sberleffo di un imbecille che tempo fa vi ha appeso un sacco della spazzatura. Il monumento reca la data del 21 aprile 2002 ed è dedicato semplicemente «all’illustre scrittore». A distanza di tanti anni nessuno toglie dalla testa del maestro che le manazze e tutto il resto furono un dispetto. Magro, gesticolante, Carmelo Verdi è un sofista che sa giocare con le parole, ma se pensa a Manazza l’ironia gli si muta in bile, e non sa resistere alla tentazione di sfogarsi con i forestieri incontrati per caso in un bar.
Anche il sindaco, l’architetto Marco Aurelio Sinatra, sentenzia: «La colpa della Sicilia sono i siciliani». Vizzini si visita con un senso di malinconia per quella che Pietro La Rocca, storico e archivista della diocesi a Caltagirone, definisce una magnifica decadenza. Palazzi barocchi scrostati, l’Albergo Roma trasformato in appartamenti, l’ospedale in bilico che custodisce negli scantinati macchinari rimasti per sempre impacchettati, un operaio disoccupato che minaccia di mettere a fuoco il municipio, spazzatura dappertutto (ma non ditelo al sindaco perché vi accuserà di essere gufi). In piazza Umberto palazzo Verga ha un pezzo di tetto danneggiato, dalle bombe degli Alleati nel 1943, e mai riparato. Fu colpito perché era divenuto sede del partito fascista come testimonia la scritta sulla facciata Pnf e, sotto, Gioventù Italiana Littorio. Dai ventimila abitanti degli anni Venti ne sono rimasti poco più di seimila. I vizzinesi sono sparsi per il mondo. A Melbourne in Australia esiste una comunità numerosa quasi quanto la madrepatria. Per i giovani non ci sono prospettive. L’impiego pubblico fa da valvola di sfogo: al Comune ci sono ottanta impiegati di cui 42 precari.
Nel museo, affidato alle amorevoli cure di Lisa Amato e Valeria Giarrusso, una stanza è dedicata all’ultimo periodo d’oro di Vizzini, quando, imperando il Neorealismo, arti popolari come cinema e televisione l’hanno reso di nuovo capitale dell’immaginario. Per la verità non si cominciò bene: nel 1953 Carmine Gallone scelse Noto e Misterbianco per il film Cavalleria Rusticana. Ci furono proteste e veementi polemiche sui giornali, tanto che il governo nazionale, per placare gli animi, inviò una troupe a girare un documentario riparatorio a Vizzini. Il paese divenne un grande set quando Giacomo Vaccari venne a girare le sei puntate del Mastro don Gesualdo televisivo, trasmesso dal gennaio 1964. Un ruolo di comparsa non si negò a nessuno, accanto a Enrico Maria Salerno, Lydia Alfonsi, Turi Ferro. Di quell’allegro trambusto si ricorda bene Gregorio Lazzara, un vecchietto affabile, rotondetto e lucido. Fu, com’egli si definisce, assistente del regista, nel senso che doveva provvedere alle sue esigenze come cameriere; se fu assistente lo fu degli amori illeciti tra Vaccari, sposato, e la prima donna. Di Enrico Maria Salerno ricorda la voracità sessuale soddisfatta a pagamento.
Questa è sopravvissuta a scissioni e tempeste politiche, neanche il fascismo riuscì a scioglierla perché nello Statuto è scritto che riconosce e rispetta tutte le leggi dello Stato. Anche qui si gioca a carte e a biliardo. Il presidente Sebastiano Midolo, un carabiniere in pensione, tiene a precisare che la Società è apolitica. Con i suoi settecento soci è il luogo d’incontro prediletto dei vizzinesi. Troviamo però solo maschi, le donne sono ammesse ma si vedono esclusivamente nelle feste comandate. Midolo assicura che tutto procede bene, che si litiga e ci si insulta solo per una giocata sbagliata, che persino gli emigrati restano soci, che certo non mancano i pettegolezzi, ma basta una domanda innocente per fare emergere una di quelle beghe così intrigate in cui è facile smarrirsi. All’origine, tantissimi anni fa, un ammanco per leggerezza contabile a cui è seguito un lungo processo: un dottor sottile, levandosi gli occhiali, spacca il pelo in quattro, disserta con sapienza e puntiglio di statuti e colpi di mano. Uno spirito ribelle, che pareva assorto in altri pensieri, grida a un tratto che facciano pure ma non caveranno un soldo dalle sue tasche. Il presidente, conciliante, tenta di spiegare che, per come funziona la giustizia in Italia, anche se la causa è stata vinta, conviene tuttavia rinunciare al risarcimento per non aggravare il bilancio della Società delle spese per le ingiunzioni di pagamento.
Più semplice districarsi in una questione di corna e gelosia come in Cavalleria rusticana. L’osteria, dove Verga immagina sia stato scambiato il bacio della sfida mortale, conserva ancora un aspetto antico. Vizzini è così, fantastica e reale, con i palazzi aristocratici e le chiese del Maestro don Gesualdo. A ridarci l’idea della potenza creativa, che non conosce angustia di luoghi né di mestieri, è però un muratore incontrato per caso sulla porta del garage salendo al Castello. Sebastiano Cannizzaro scrive versi e racconti, l’ispirazione gli viene quando lavora sui tetti, spaziando con lo sguardo dai campi al monte Lauro e osservando dall’alto la commedia umana.
Il portale gotico della Chiesa Madre dedicata a Gregorio Magno testimonia il gusto raffinato della Vizzini del Cinquecento. Davanti a questo ingresso nell’anno 1600 fu costretta a stare in ginocchio, con il morso in bocca e una cassa di paglia attaccata al collo, Beatrice Milito, accusata di stregoneria e fatture ad amorem. L’ombra cupa del passato viene diradata dall’avvicinarsi di un cane. È di tutti e di nessuno, chiamato Leone, per il pelo folto, o Fedele, per chi voglia sottolinearne l’indole. Ci segue in chiesa senza che alcuno mostri stupore. Ci raccontano che lì dentro è una presenza abituale, anzi assiste alle funzioni religiose in un silenzio dignitoso e assorto, con una predilezione particolare per i funerali. Una volta che era sparito, tutto il paese entrò in subbuglio. Si scoprì che era salito sull’autobus e lo andarono a recuperare a Francofonte.