«Quando si bombarda si chiama guerra. Poi si possono utilizzare tutti gli aggettivi che si vuole, ma rimane sempre guerra». Si è sempre schierato, Gino Strada. Fino all’ultimo, firmando dalla Normandia dove era per una breve vacanza un editoriale su 'La Stampà per commentare la situazione in Afghanistan, 24 ore prima di morire: «dicevamo 20 anni fa che questa guerra sarebbe stato un disastro per tutti. Oggi l’esito di quell'aggressione è sotto gli occhi di tutti: un fallimento». E non ha mai fatto nulla per nasconderlo, in una società in cui il politicamente corretto è l’unica via per entrare nelle stanze del potere. Scegliendo sempre la strada, meglio se polverosa e in una qualche periferia del mondo, dove la felicità è una protesi per un ragazzino al quale una mina antiuomo prodotta in Occidente ha fatto saltare una gamba e vederlo tornare a camminare.
«E' morto felice» racconta la presidente di Emergency Rossella Miglio sottolineando che aveva qualche piccolo problema di cuore ma nulla che potesse far pensare ad una scomparsa così improvvisa. «Nessuno se l’aspettava. E’ una perdita enorme per il mondo intero, ha fatto di tutto per renderlo migliore». Ed in effetti la sua creatura, fondata 25 anni fa assieme alla moglie Teresa Sarti, scomparsa nel 2009, da allora è cresciuta fino ad arrivare in 18 paesi e diventare l’unica speranza di vita per milioni di persone. Era il 18 luglio del 1994, come budget c'erano 12 milioni di lire e il posto era il Ruanda devastato dalla guerra civile. Poi è arrivato l’Afghanistan e il Sudan, l'Iraq e la Sierra Leone. Cure mediche e chirurgiche gratuite per tutti. Buoni, presunti buoni, cattivi e presunti cattivi. Senza distinzione. Quasi 11 milioni di persone assistite. Un’enormità. «Curare i feriti non è né generoso né misericordioso, é semplicemente giusto. Lo si deve fare».
A nome di tutto il governo, il presidente del Consiglio Mario Draghi gli ha reso omaggio. «Ha trascorso la sua vita sempre dalla parte degli ultimi, operando con professionalità, coraggio e umanità nelle zone più difficili del mondo». «Ha recato le ragioni della vita dove la guerra voleva imporre violenza e morte – sono le parole del capo dello Stato Sergio Mattarella – Ha invocato le ragioni dell’umanità dove lo scontro cancellava ogni rispetto delle persone».
Ruvido, spigoloso, diretto, divisivo, Gino Strada era però un uomo capace e con una rara determinazione. Nato a Sesto San Giovanni, la Stalingrado d’Italia, è sempre stato ostacolato dai governi, di destra e di sinistra, e inviso a decine di politici compresi molti di quelli che oggi fanno a gara per celebrarlo assieme ad artisti, personaggi famosi e non. Amato come un padre e un maestro dai volontari. «Ora scriveranno tante belle parole – dice uno di loro, Fabio Farneti, su Instagram – anche quelli che ti hanno sempre odiato. Secondo loro non potevi curare tutti i feriti, non quelli che loro consideravano terroristi. Come se in guerra esistessero feriti di serie A e B». I cinquestelle lo inserirono nelle "Quirinarie", il sondaggio lanciato per scegliere il candidato al Colle. Strada fu secondo. Ma quando nacque il governo gialloverde non fu tenero. «Quando alla fine si è governati da una banda dove una metà sono fascisti e l'altra coglioni, non c'è una grande prospettiva per il paese». Matteo Salvini, con il quale gli scontri sono stati ripetuti, oggi mette da parte le «diversità politiche» e parla di un «uomo di valore».
La figlia Cecilia, che per anni dopo la scomparsa della madre ha diretto l’associazione, è in mezzo al Mediterraneo a bordo di una nave della Ong 'ResQ Peoplè per soccorrere i disperati che attraversano il Mediterraneo. E anche questo dice molto di quali valori abbia trasmesso Gino Strada. «Il mio papà non c'è più, ma non posso rispondere ai vostri tanti messaggi perché sono qui, dove abbiamo appena fatto un soccorso e salvato vite. E’ quello che mi ha insegnato lui e la mia mamma». Nel 2015 ricevette il Premio Nobel alternativo. E anche davanti ai membri del Parlamento svedese fu diretto: «ho visto i feriti e i morti, ho operato migliaia di persone, ferite da frammenti di bombe o missili. A Kabul, ho esaminato le cartelle cliniche di 1200 pazienti per scoprire che meno del 10% erano presumibilmente dei militari. Il 90% delle vittime erano civili, un terzo dei quali bambini. Quindi è questo «il nemico"?».
Il suo nome era tornato buono anche per la scelta del commissario della sanità in Calabria. «Non sono disponibile a fare il candidato di facciata ma metterei a disposizione la mia esperienza solo se ci fossero la volontà e le premesse per un reale cambiamento». Giù il solito putiferio di polemiche. «Ma cosa c'entra – tuonò il presidente Nico Spirlì– la Calabria è una regione d’Italia, non abbiamo bisogno di medici missionari». Non se ne fece nulla, ovviamente. Due anni fa, a Venezia per un documentario sulle Ong, aveva individuato quello che è uno dei problemi di questi tempi, l’odio sui social, soprattutto verso i più deboli. «In 70 anni non ricordo di aver visto un altro momento con così tanto odio sociale e disprezzo per chi sta sotto. Un poveraccio è visto quasi come causa dei problemi degli altri». Ancora una volta gli ultimi, quegli stessi che popolavano i suoi sogni realizzati, gli ospedali in giro per il mondo, e quelli rimasti tali, l’ospedale in Italia: «Non vogliamo sostituirci ma dare una mano a chi non può neanche pagare il ticket. Un ospedale pubblico davvero, dove il profitto non esista». Schierato, sempre.