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Tv, Donatella Finocchiaro: «Io, una giudice popolare al Maxiprocesso»
ROMA – Le ansie e i problemi di vita quotidiana, le scorte h24, i dubbi, ma a prevalere è il senso etico e civile per un futuro migliore. Il ruolo delle tre giudici popolari del maxiprocesso di quella corte di assise che processò più di 450 imputati dando nome e cognome a Cosa Nostra, per cui, per dirla con il regista Francesco Micchichè, «esiste un prima e un dopo il maxiprocesso». “Io, una giudice popolare al Maxiprocesso” è la docufiction, realizzata da Stand by me in collaborazione con Rai Fiction, in onda domani in prima serata su Rai1, che racconta la storia di una professoressa e due casalinghe con fascia tricolore, accanto ai giudici Alfonso Giordano e Pietro Grasso, di fronte a Liggio, Bagarella, Calò (“quando entrò Buscetta che chiese di testimoniare, in aula dalle gabbie, raccontano, calò un silenzio gelido» tra boss e sicari).
La figura di Caterina, interpretata da Donatella Finocchiaro, sintetizza quelle di tre giudici popolari, Maddalena Cucchiara, Francesca Vitale, Teresa Cerniglia; il presidente della Corte Alfonso Giordano è interpretato da un inedito e rigoroso Nino Frassica, senza barba e con capelli corti e bianchi.
Tanti i pericoli corsi da queste donne dalla schiena dritta, come si vede nella fiction quando nella galleria d’arte del marito della professoressa Vitale «rubarono 23 quadri e altri pronti per essere portati via. Telefonai al giudice Grasso».
Evento evocato dalla Finocchiaro che piena di dubbi si consulta con Grasso: «Mio figlio nemmeno mi parla». E il giudice nella fiction replica: «Ho gli stessi problemi con il mio. Ma io ero di turno quando ammazzarono Piersanti Mattarella. Penso a Ninni Cassarà. E so che non possiamo mollare. Un giorno i nostri figli capiranno e ci ringrazieranno».
Cosa ricorda l’attrice siciliana di quei tempi? «In realtà non mi rendevo conto, ero una bambina, all’epoca giocavo con le bambole, ma avevo una zia che lavorava in un tribunale e uno zio che faceva il carabiniere, amico del generale Dalla Chiesa, ricordo le sue lacrime, era inconsolabile. Le tragedie mi sono giunte attraverso le narrazioni familiari, ma ho capito che il dramma entrato in casa, ero piccina e non avevo, confesso, percezione ancora».
Nino Frassica veste i panni del presidente della Corte, «un uomo – fa notare l’attore siciliano – d’altri tempi, elegante, ligio al dovere, arrivò a presiedere il maxiprocesso perché altri 11 si erano tirati indietro e fu la scelta azzeccata, giusta. Mi sono trovato a mio agio nell’interpretarlo, l’ho amato subito, era dotato anche di grande ironia, purtroppo non ho avuto il piacere di incontrarlo, ma solo di conoscerlo attraverso le immagini del processo, le documentazioni che ho studiato e il contributo bellissimo che ci ha lasciato».
Dietro a quel processo nel 1986 c’erano Falcone e Borsellino, i due magistrati costretti a raccogliere le prove dell’accusa all’Asinara perché a Palermo cadevano mille morti all’anno. Invece si fece, producendo 19 ergastoli, 114 assoluzioni, 342 condanne, 2.655 anni di carcere inflitti dopo 35 giorni di camera di consiglio. Una storia raccontata tante volte con gli obiettivi puntati fra le gabbie dell’aula bunker dell’Ucciardone. Nella docufiction ecco sbucare i tormenti di Francesca Vitale, la professoressa di italiano con il marito antiquario, Teresa Cerniglia, sposata con un docente, e Maddalena Cucchiara, il marito medico. Le tre donne ora 80enni che nella docu-fiction compaiono lucidissime ricordano tutto, hanno diari in cui appuntavano ogni cosa, come si vede anche nelle immagini d’archivio.
Il vero giudice Alfonso Giordano dice: «Fummo certamente aiutati dalla sorte perché tutti e sei i giudici popolari dimostrarono di essere onesti, corretti, veramente esemplari». Giuseppe Ayala ricorda ancora «l’inquietudine che condizionò il mio stato d’animo durante l’udienza destinata al sorteggio dei giudici popolari destinati a comporre la Corte d’assise chiamata a gestire quell’enorme processo. Era un’inquietudine derivante dalle difficoltà che il presidente del tribunale aveva dovuto superare per la designazione del presidente di quella Corte. Alcuni magistrati, infatti, avevano ritenuto di doversi tirare indietro». Pietro Grasso: «I giudici popolari erano persone che non avevano, al contrario nostro, scelto un impegno professionale per cui il rapporto con la mafia era nel conto, ma si trovarono a svolgere un ruolo delicato, importante e rischioso, e seppero rispondere alla chiamata dello Stato e della legge. Tutti dobbiamo essergliene riconoscenti».
I filmati d’epoca inseriti nella docufiction sono stati forniti dalla Rai (Rai Teche e Rai Sicilia, che ha digitalizzato e conserva l’intero girato del Maxiprocesso); le foto e i titoli dei giornali mostrati fanno parte dell’archivio de L’Ora di Palermo e sono stati forniti dalla Biblioteca Regionale Siciliana. COPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA