Buio in sala
Tra le “nebbie” di Donato Carrisi dove l’angelo custode si chiama “male”
Una ragazza è scomparsa in un piccolo villaggio di montagna e si scatena la morbosità dei curiosi. Lo scrittore-regista, il quale parla di un suo angelo custode “cattivo” che gli dà licenza di raccontare vicende noir, per il suo "La ragazza nella nebbia", tratto dal suo romanzo, con grandi attori come Toni Servillo, Jean Reno e altri, intreccia storie e personaggi senza far capire ciò che è vero da ciò che è falso. Nonostante il colpo di scena finale
“La ragazza nella nebbia” è il film che segna l’esordio alla regia di Donato Carrisi autore di successo del libro omonimo a cui si ispira la storia. Lo scrittore-regista in un’intervista sostiene di essere stato orientato nello scrivere e narrare storie dalla presenza di un suo angelo custode “cattivo” che da sempre lo accompagna e gli dà licenza di raccontare vicende noir rimaneggiandone i toni classici. Nel film infatti, pur non essendoci manifestazioni di palese violenza se ne percepisce l’alone e i personaggi appaiono ricurvi su loro stessi in una complessità che disorienta lo spettatore e lo allerta in una continua attesa, vero motore trainante del film.
Donato Carrisi e il suo romanzo da cui è tratto il film da lui diretto
La vicenda si svolge in un luogo di pura fantasia, il paesino di montagna chiamato Avechot, inquietantemente somigliante al paese di Cogne, dove esiste una sola strada principale da cui passare e nessuno sembra accorgersi mai di niente; nonostante la nebbia sembri avvolgere tutto penetrando nella mente ed ovattando completamente il rumore dei pensieri e delle azioni dei protagonisti basta battere più volte le mani affinché si evochino presenze dietro le tende delle case o furtive occhiate di curiosità. Il film si apre con un colloquio organizzato in fretta ed in piena notte nell’ufficio del commissariato tra lo psicoterapeuta del paese ed un uomo che, dopo un incidente appare in stato di forte choc emotivo. L’uomo, fortemente provato non ha riportato ferite e non sa spiegare né la sua presenza in quel posto né le tracce di sangue sulla sua camicia.
La scena ricorda l’incipit di “Una pura formalità” di Giuseppe Tornatore, e come quello si anima e prosegue in continui andare avanti ed indietro nel tempo. L’uomo a colloquio con lo psichiatra Augusto Flores (l’attore francese Jean Reno) di cui non si capisce il ruolo, né l’urgenza di quell’interrogatorio notturno è l’ispettore Vogel, lo stesso che due mesi prima aveva condotto le indagini sulla morte della giovane Anna Lu, sedicenne dalla vita irreprensibile scomparsa nel nulla. Uno straordinario Toni Servillo veste i panni del cinico super ispettore: con il suo volto plastico e il cipiglio arrogante di chi arriva dalla città in una provincia defilata, applica metodi indagatori estremamente spregiudicati quasi scorretti; l’ispettore Vogel imbastisce, come suo solito, un gigantesco circo mediatico orchestrando e manipolando le azioni dei media che con i loro inviati e le troupe televisive invadono il territorio.
Anche qui si intuisce il “diritto” del pubblico che esige sovrano e famelico la conoscenza dei particolari scabrosi e la possibilità di rimestare l’intimità di chi è coinvolto nel fatto di cronaca. Tutto gioca in modo perfetto e realistico: si vogliono vedere i genitori distrutti nel dolore; l’appello della madre alla figlia, che ne dà la descrizione e la rassicura sul loro amore. Lo fa mirabilmente con il suo essere dimesso con i capelli con la ricrescita bianca accanto a un padre taciturno nel suo aspetto da vero uomo delle montagne ma in fondo timoroso che vengano svelati i suoi piccoli segreti inconfessabili.
La loro casa con giardino prospiciente, addobbata nel perimetro di luci natalizie ed albero di Natale non rende vincente la gaia intermittenza sull’atmosfera di consapevolezza nefasta che lo spettatore avverte quando la porta della casa si chiude in uscita alle spalle di Anna e dei suoi splendidi capelli rossi. La ricerca ad ogni costo di un mostro che faccia audience e non importa se questi sia colpevole o no perché “la giustizia non fa ascolti e non interessa a nessuno”.
Servillo/Vogel con Lorenzo Richelmy, l’agente Borghi
E il mostro si individua nel professore di letteratura Loris Martini, interpretato da Alessio Boni, trasferitosi con la moglie Clea (l’attrice Lorenza Guidone) che lo ha tradito e la figlia per ricominciare una nuova vita. E’ estraneo alla comunità locale ed in più è un intellettuale: è perfetto nel ruolo di sospettato principale. E qualunque cosa dica o faccia sembra avvilupparlo alla responsabilità del delitto a cui appare non tentare di sottrarsi. Un turbinio preciso di riferimenti a luoghi e vicende vere e dolorose come Cogne, Brembate, Una Bomber, ci ricordano come la spettacolarizzazione del crimine fa che tutti ci guadagnino qualcosa: i locali, prima semideserti diventano punto di appoggio delle troupe televisive e il paese diventa meta turistica di cronaca nera dove farsi riprendere, farsi un selfie, portare un lumino o un pelouche.
Alessio Boni e Lorenza Guidone
Questi i principali ingredienti che tengono alta l’attenzione; ma come accade spesso nella vita, qualunque verità alla fine può rivelarsi un inganno e quando esplode il colpo di scena finale inaspettato, forse un po’ forzatamente costruito, lo spettatore esce dalla sala accompagnato da una strana sensazione di non aver capito bene, di non saper discernere ciò che vero da ciò che è falso e rimane in una ambiguità che lo accompagna anche quando siede in macchina per tornare a casa e lo fa continuare a disquisire con chi ha visto il film e che è forse l’obiettivo a cui l’autore sornionamente strizzando l’occhio, aspirava giungere.
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