Strage via D’Amelio, il “Libera nos” e un mea culpa ci rigenerino

Di Antonello Piraneo / 19 Luglio 2020

Catania – «Beato quel popolo che non ha bisogno di eroi», filosofeggiava Bertold Brecht. Ma davvero non c’è bisogno di eroi, cioè di fare memoria, di cercare modelli sociali cui guardare, ispirarsi, tendere, nella speranza che il loro lascito non venga disperso dalle generazioni successive? O forse la citazione brechtiana va leggermente calibrata, nel senso che beato è quel popolo che non ha bisogno della retorica dell’eroismo, della parata che lo celebra, dello sfruttamento postumo di bandiere mai prima sventolate – mai prima che venissero ammainate dalla violenza mafiosa – del carrierismo e del professionismo antimafioso di sciasciana lungimiranza?

La domanda non appaia peregrina né provocatoria oggi che l’Italia ricorda Paolo Borsellino e i cinque agenti di scorta caduti con lui in via D’Amelio, in un pomeriggio di estate di 28 anni fa che, visto il contesto, si temeva potesse arrivare e in fondo si considerava tragicamente ineluttabile, forse soltanto non così presto, appena 57 giorni dopo il 23 maggio. Ha ragione allora Claudio Fava, che da figlio di un eroe civile come suo padre, Giuseppe “Pippo” Fava, prima ancora che da presidente della commissione regionale antimafia, venerdì ha postato su Facebook una preghiera laica, “libera nos”, per dire basta alle etichette, alle fanfare, alle parole roboanti e perciò troppo spesso vuote, «all’antimafia stampata sui biglietti da visita» scrive Fava, come se fosse un titolo onorifico e non una condizione basica per esempio per chi fa il magistrato, oppure il giornalista per parlare della nostra professione, affascinante e insidiosa.

Abbiamo vissuto una lunga stagione di autoproclamazioni utili a coprire maleodoranti affari e amicizie, abbiamo visto paladini delle legalità cadere come birilli di fronte ad accertamenti giudiziari appena puntuali e non orientati. Abbiamo visto distribuire patenti e bollini “antimafiosi” senza stare troppo a pensare a chi li desse a chi li ricevesse, trascinati tutti dall’onda della convenienza e della convenzione, abbiamo seguito generosi volontari che se vicini al “cerchio magico” diventano automaticamente “antimafiosi” e altri che invece restano “soltanto” generosi volontari. Forse dovremmo recitare un po’ tutti un’altra preghiera laica, una sorta di mea culpa rigenerante.

Fava ha il cognome giusto per aprire un’altra stagione, senza correre il rischio di passare per normalizzatore. Quest’altra stagione può e deve coincidere con quest’altra battaglia: contro la mafiosità, mix micidiale e subdolo di prepotenza, arroganza, malandrineria, “spittizza” nella sua accezione peggiore, delirio di onnipotenza, refrattarietà al bene comune, alla condivisione di valori, al rispetto delle regole, fosse concorrere a una gara d’appalto senza manovrare per truccarla oppure soltanto fermarsi con l’auto a uno stop. Per questa battaglia, che forse dà meno visibilità, serve un impegno totale, senza etichette, senza “esclusive” e anche senza conventio ad excludendum. Un’operazione di (ri)educazione che tanto piacerebbe a quei ragazzi della Kalsa poi divenuti Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Dunque, celebriamolo così Borsellino, che non a caso volle vivere una vita per quanto possibile normale, che fu amato e pianto da una famiglia normale, attorniato da amici normali, che lo salutarono in una chiesa normale.

Ps.: beato, piuttosto, quel popolo che non ha bisogno di morti annegati per indignarsi di fronte alle città devastate dalle piogge e da una gestione del territorio che, questa sì, merita un’etichetta: criminale.

Condividi
Pubblicato da:
Redazione
Tag: altre-notizie borsellino eroi fava mafia popolo via d'amelio violenza mafiosa