IL COMMENTO
Sebastiano Ardita: «La legalità in Sicilia, i principini Uzeda e i dannati di mafia»
Parlare di legalità in Sicilia è arduo e si rischia dire insensatezze e ovvietà. Le regole, in una democrazia, sono tutto. Creano le condizioni di uguaglianza e dovrebbero assicurare la convivenza pacifica. Eppure alcuni dei doveri più semplici – pagare le tasse, rispettare le autorizzazioni e i divieti amministrativi – sono ignorati e a volte neppure conosciuti da molti cittadini. La loro importanza andrebbe spiegata, con l’esempio, da chi ha responsabilità pubbliche e potere economico; il loro rispetto incoraggiato da gesti di solidarietà. Perché è più semplice dirsi rispettosi della legalità quando si vive nel benessere. Un giorno Paolo Borsellino, quando era ancora pretore, acquistò del pane da un carretto per la strada. L’ambulante lo riconobbe e gli disse: «Dottore lei mi ha condannato perché vendevo il pane senza licenza e ora si compra il pane da me…? Ma io glielo regalo con tutto il cuore». Borsellino lo guardò negli occhi per un istante e poi lo abbracciò.
In quell’abbraccio c’era tutto: non la deroga alle regole – che erano state applicate – ma la comprensione per chi sopravvive alla povertà. Quell’abbraccio era un gesto solidale, e per tutti noi l’insegnamento a riflettere sul senso non formale della legalità.
Vi è infatti una legalità che asseconda i cambiamenti sociali, che riavvicina gli ultimi a una condizione di decenza, che accoglie e coinvolge tutti, come dovrebbe accadere in democrazia: ed è quella che appare più distante per chi vive ai margini. Le istituzioni vengono avvertite “lontane” perché spesso non offrono opportunità, frustrano le speranze dei giovani. E così troppe volte, dinanzi all’illegalità dei quartieri, ci si affida solo alla repressione. Assistiamo ad operazioni di polizia che portano in carcere spacciatori e malavitosi, e ciò a molti appare sufficiente per riaffermare che la legalità esiste ed è stata ristabilita. Dobbiamo però impedire che essa venga intesa come schermo formale dietro il quale si riparano i benpensanti, i fortunati, coloro che decidono le sorti degli altri. Così infatti aumenta il solco nelle nostre città, dove nel centro ricco e opulento troviamo chi parla il politicamente corretto e sfoggia le sue belle idee di progresso; e magari utilizza gli slogan antimafia scagliandoli verso i quartieri che ingrossano le fila di Cosa Nostra. Mentre più giù, nella periferie, cresce la diseguaglianza con la rabbia e il desiderio di rivalsa dei “dannati di mafia”.
Qualche giorno fa a Catania un’operazione di polizia ha portato in carcere diverse persone, tra cui alcuni ragazzini di San Cristoforo, cuore popolare della città. Ignoranza, spregiudicatezza e cattive compagnie avevano convinto questi giovani disgraziati che lo spaccio della droga fosse meglio del lavoro. Nessuno può giustificare quella scelta ed è giusto che paghino per avere violato la legge. Ma questo non deve bastare agli abitanti della città bene per sentirsi più sicuri e rinfrancati. Quella scena di giovani emarginati in manette sarebbe finita sotto silenzio se un giovane de “I Siciliani” non avesse riassunto con poche parole, di sapore verista, l’ingiustizia, nel caso di Catania: «I ragazzini di San Cristoforo ammanettati e incarcerati, i boss mafiosi che fanno affari coi soldi della droga e i figli della Catania bene indaffarati a cercare un altro posto dove comprare l’erba e la coca, prima di andare a una festa, prima di farsi uno spinello sotto la Luna, davanti al mare».
Riviviamo in tempi moderni il racconto delle scorribande del principino Uzeda – sempre immune dalle conseguenze delle sue bravate – e il senso di frustrazione degli ultimi che, ieri come oggi, ci appaiono frequentatori irrilevanti di cabine elettorali, sudditi e non cittadini, spettatori e non protagonisti delle scelte che riguardano il bene pubblico. E ancora ci si ripara dietro slogan di maniera; o dietro un’antimafia di potere (una vera contraddizione in termini) preoccupata da Matteo Messina Denaro o dagli altri boss che stanno sepolti dal 41bis e disinteressata alla complicità dei poteri esterni. Ed ora come allora l’esercito dei violenti disadattati continua ad essere una massa di manovra, e vi è chi si approfitta, ci convive e la domina. Esattamente come il principe di Francalanza domava le ire dei poco raccomandabili personaggi, scontenti della sua politica. Con la differenza che i nobili di casato oggi non esistono più, ma quell’insieme di “astuzia, di abiti maltagliati, di oro e di ignoranza”, usurpando il ruolo dell’operosa borghesia, la fa da padrone dentro ogni potere pubblico ed economico.
* Procuratore aggiunto di CataniaComponente del Consiglio Superiore della Magistratura
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