Anche nel recente film “In guerra per amore”, come nel precedente “La mafia uccide solo d’estate”, Pif adotta lo sguardo ingenuo di un uomo comune, inizialmente interessato ai fatti propri, ma che a contatto con la realtà tragica della guerra si apre al mondo per acquisire conoscenza, responsabilità ed esprimere impegno civile. E’ la storia di un siculo americano che si innamora, riamato, di una giovane già promessa al figlio di un boss mafioso newyorkese. Per riuscire a sposare l’amata deve ottenere il consenso del padre di lei, che vive in Sicilia. Siamo nel 1943, in guerra, e l’unico modo per raggiungere la Sicilia è arruolarsi nell’esercito americano che sta approntando l’operazione Husky. Così il nostro eroe si trova coinvolto nella grande storia e ancora una volta è un viaggio nel disincanto alla scoperta della mafia e del suo ruolo inquinante nella nostra società. Un film godibile (bella la citazione da “Il pozzo dei pazzi”) che vorrebbe essere di impegno, dunque, ma che ripropone una banalizzazione che non può essere neanche attribuita a creatività: quella trita e ritrita che parla dell’aiuto offerto dalla mafia alle truppe americane per conquistare e ancor più per governare la Sicilia occupata.
E’ roba vecchia, già smentita dagli esiti della commissione statunitense Kefauver nel 1953, che escludeva qualsiasi aiuto offerto da Lucky Luciano (allora in carcere) all’operazione Husky, anche se affermava che Luciano aveva aiutato il controspionaggio americano a sconfiggere i sabotatori tedeschi attivi nel porto di New York. Per questo sarebbe stato graziato e liberato alla fine della guerra. Le ricerche più recenti hanno dimostrato che la motivazione patriottica così addotta, altro non era che lo schermo offerto all’opinione pubblica per mascherare un volgare scambio elettorale. Sulla stessa scia molti mafiosi italo americani offrirono servigi o millantarono meriti, non risulta che questo abbia avuto una incidenza sulle decisioni militari e politiche.
Per volontà di Roosevelt la prima ondata di attacco alle coste siciliane comprendeva molti figli di immigrati. Il motivo era molto più serio del coinvolgimento mafioso: si trattava di presentarsi con la faccia amica del Paese che aveva accolto e dato speranza e avvenire ai molti disperati che nei decenni precedenti erano partiti per la Merica in cerca di fortuna. Era questa un’arma straordinaria, che si fondava su uno dei miti più importanti della modernità. L’averlo banalizzato e stravolto è davvero un peccato per uno che pensa di fare un film impegnato, con dedica a Ettore Scola. Tuttavia lo sbarco non fu cosa facile e a Gela la divisione Livorno tenne testa duramente agli americani. Ma Pif vuole convincerci che lui ha fatto una ricerca originale e seria ed esibisce un documento alla fine del film. Dice, in varie interviste, di aver faticato tanto a scovarlo negli archivi. Si tratta del rapporto del capitano statunitense W.E. Scotten, “The problem of mafia in Sicily”. Bastava andare dal giornalaio o in biblioteca. L’ultima volta era stato pubblicato su “Repubblica” di un paio anni fa, ripreso da una mia vecchia pubblicazione (Annali della Facoltà di Scienze Politiche, 1980) e poi utilizzato ancora da me e da altri studiosi. Nel 2013 un grande convegno internazionale a Palermo si è occupato dell’argomento, gli atti sono pubblicati sulla rivista “Meridiana”.
Il documento è significativo perché mostra come per gli americani la mafia rappresentasse un problema e non un aiuto, comprese le nomine dei sindaci mafiosi ispirate da interlocutori locali e non da fantomatiche liste. Gli studi successivi, miei, di Lupo e infine di Manoela Patti (pubblicati da note case editrici (Einaudi, Donzelli) hanno approfondito via via la questione, dimostrando tra l’altro che gli stessi americani tentarono un contrasto significativo alla mafia. La storia del rapporto tra mafia e politica è dunque più complicata e non credo che giovi la semplificazione.
In passato i registi impegnati (per es. Scola, Rosi, Petri, Montalto) dialogavano con gli studiosi, elaboravano domande e proposte culturali “scomode” e innovative. Pif ripropone il senso comune: il modo più facile per ottenere consenso nelle strategie di marketing.