Scicli, la peste e il modello culturale per lo sviluppo

Di Salvatore Scalia / 11 Aprile 2016

Appena entrati nel municipio di Scicli, una solerte signora vi viene incontro e, prima di lasciarvi aprire bocca, vi informa che la stanza di Montalbano è quella del sindaco, è di sopra e dovete salire tre rampe di scale… Siete così proiettati bruscamente dall’animazione di via Mormino Penna nell’universo dell’immaginario letterario e televisivo, arruolati tra i tanti pellegrini che da ogni parte d’Europa, anzi, ti correggono con una punta d’orgoglio, da tutto il mondo, affluiscono per vedere i luoghi, dal bar degli arancini alla casa sul mare a Puntasecca, del popolare commissario inventato da Andrea Camilleri. La stanza ha una solennità ottocentesca, con quadri, arazzi, bandiere, la foto dei reduci garibaldini di Scicli accanto alla scrivania, e un volume con i nomi dei caduti della Grande guerra.

Sarebbe tutto in sintonia con i moderni feticci del turismo, se non fosse che i commissari ci sono veramente e sono tre, in quanto il Comune è stato sciolto per mafia. E non capisci se la fantasia abbia influenzato la realtà o viceversa.

Come in una trama camilleriana il sindaco Franco Susino è accusato di avere trafficato con Franco u Trinchiti, il giornalista Paolo Borrometi è stato minacciato per le sue inchieste, e i giudici hanno sentenziato che il marcio c’è.

È arduo conciliare tutto ciò con l’immagine e la storia della città, con le chiese e i palazzi barocchi, con gli artisti del Gruppo di Scicli, con la dolcezza carezzevole dell’idioma, con la purezza della luce e la bellezza delle spiagge, con i nomi fiabeschi delle frazioni marinare, da Cava d’Aliga a Donnalucata, e con l’immagine di Piero Guccione che studia per mesi ogni minima vibrazione luminosa delle onde marine traducendola in emozioni e sfumature di colori.

Si capisce perciò l’incredulità generale, e perché si tenda a ridurre tutto a cretineria, follia, leggerezza, mancanza di santi in paradiso. E Vittoria o Pozzallo? Si ha l’impressione di una città contagiata dalla peste senza che i cittadini ne siano pienamente consapevoli.

Il direttore del Giornale di Scicli, Francesco Causarano, scrolla le spalle e risponde con una risata beffarda. Paolo Nifosì, valente storico dell’arte, ammette che esiste una tendenza all’illegalità come in ogni parte d’Italia, non si può però parlare di mentalità né di economia mafiose. Anche Severino Santiapichi, il giudice del caso Moro e di Alì Agca, si ribella: “Se ci sono reati e delinquenti li puniscano, ma, con tutto il rispetto per i magistrati, non si può fare di tutta l’erba un fascio. La comunità non merita questa mancanza di rispetto.”

Poiché il sindaco e i consiglieri sono stati eletti, Nifosì incolpa la debolezza del tessuto sociale, attribuendo l’inadeguatezza cronica dei politici alla tardiva emancipazione da Modica e Ragusa. La sua conclusione è sconsolata: “Oggi purtroppo se dici la verità non ottieni un voto, per essere eletto devi mentire.”

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Con disagio ripensiamo alle pagine del romanzo postumo del 1969 di Elio Vittorini Le città del mondo, in cui Rosario, figlio di pastore, alla vista di Scicli perla incastonata tra le colline, chiede al padre: “È Gerusalemme?” Lo scrittore ci fa accostare con un senso di sacralità, “là dove bello e buono coincidono, come nel caso di Scicli,” convinto che “le città belle, cioè, avevano questo merito: di rendere la gente brava e buona.”

Vittorini, che vi aveva vissuto bambino, ne conservò per sempre l’immagine di un paradiso perduto, tanto che elimina dallo sguardo di Rosario le grotte di Chiafura, ancora ben visibili e monito perenne, scavate nel pendio del colle di San Matteo, in cui vivevano come primitivi i diseredati della città. Nei primi Anni cinquanta furono costruite per loro le case popolari di contrada Jungi.

Nel maggio del 1959 Pier Paolo Pasolini, in un articolo su Vie Nuove, delle grotte fece il simbolo del sottosviluppo del Sud, e dell’abisso tra ricchi e poveri, contrapponendole ai palazzi barocchi.

“Chiafura era una specie di montagna del Purgatorio, con i gironi uno sull’altro, forati dai buchi delle porte saracene, dove la gente ha messo un letto, delle immagini sacre, dei cartelloni di film alle pareti e lì vive ammassata, qualche volta con il mulo.”

Su sollecitazione di Giancarlo Pajetta, Pasolini era venuto con Guttuso, Carlo Levi, Antonello Trombatori, Paolo Alatri e Maria Antonietta Macciocchi. A guidarli furono gli esponenti del Movimento culturale Brancati.

Quell’articolo fu il primo contatto di Franco Sarnari con Scicli. Lavorava a Roma con Guccione.

“Piero mi mostrò il giornale e mi spiegò che parlava della sua città.”

Seduti su un divano nella casa dell’artista nella campagna di Gerrantini, ne ascoltiamo i ricordi come un viaggio dal mondo sotterraneo dell’infanzia all’approdo alla luce siciliana. Bambino povero abitava in una casa dodici gradini sotto terra alle pendici di monte Mario; per sopravvivere lavorava in un laboratorio sette gradini sotto terra; i primi esercizi di pittura li fece con  gesso e carboncini, da cui sarebbe derivata la maestria dei chiaroscuri della maturità. In uno di questi antri oscuri incontrò quattro poveracci che arrivavano quando lui finiva di lavorare. Incuriosito, chiese che facessero. Gli consentirono di assistere, a patto che stesse zitto. Senza strumenti, battendo il ritmo sul tavolo di marmo, improvvisavano sonorità musicali. Quando vide le loro foto sulla copertina di un disco con l’etichetta La voce del padrone, scoprì che si chiamavano Quartetto Cetra.

Nel 1971 decise di trasferirsi in Sicilia, prima a Modica e poi a Scicli.

“Ero stanco dei salotti romani, di Pasolini, Moravia e Titina Maselli. Non si parlava di cultura ma di intrallazzi culturali. Guccione mi chiese: che vai a fare? Quella è la provincia babba. In Sicilia è la morte. Due anni dopo è rientrato anche lui.”

Intorno ai due artisti si formò un cenacolo e nel 1981, in occasione di una mostra alla galleria La Tavolozza di Palermo, furono identificati come scuola, nacque così il Gruppo di Scicli, con la benedizione di Guttuso che ne lodò “la purezza d’intenti.”

Sarnari ricorda gli anni dell’impegno sociale: il tentativo di cambiare la mentalità attraverso cultura, incontri a scuola, gesti esemplari come la pulizia delle spiagge a cui partecipavano i sindaci. Ora è stanco e deluso, ma non rinnega la sua scelta né rimpiange i mancati guadagni: qui, conferma, ha trovato l’ambiente ideale per il lavoro e le ricerche artistiche.

Quali vette abbia raggiunto si può constatare nei controluce, esposti alla galleria Quam, in cui si confronta con Monet e Pollock. Nella mostra, curata dal figlio Antonio, la visione prospettica si annulla per abbandonarsi a un automatismo descrittivo che amplia a dismisura la percezione.

A puntellare i ricordi di Sarnari, interviene spesso Piera, la compagna di vita. Ora è lei a raccontare: di origine modicana, quando comunicò ai genitori che andava a vivere con Franco, non mossero un  ciglio, così come nulla obiettò lo zio prete, che accettò l’unione e divenne amico del pittore comunista.

È una donna di Sicilia, di quelle reali, decise, combattive, sentimentali anche se indurite dalla lotta per la sopravvivenza, come le spigolatrici che nelle annate di carestia partivano sui carretti con figli e mariti verso le montagne di Riesi. Non per nulla la protettrice di Scicli è la Madonna delle Milizie, apparsa a cavallo, secondo la tradizione, nel 1091 per aiutare i normanni di Ruggero d’Altavilla a ricacciare in mare i saraceni invasori. Nell’iconografia è una fanciulla dolce, delicata, dalle guance rosee ma impugna la spada.

Più cupa e pudibonda l’immagine di matrice spagnola del Cristo di Burgos (1696) nella chiesa di San Giovanni Evangelista. Su fondo scuro, indossa, invece del perizoma, un gonnellino dall’orlo riccamente decorato. I piedi poggiano su uova di struzzo, simbolo di morte e resurrezione.

Davanti a palazzo Beneventano, in un bugigattolo c’incuriosisce un giovane scultore, Daniele Assenza, intento a rifinire col bulino un mascherone in pietra bianca. Si ispira ai cagnoli che l’osservano beffardi dai balconi aristocratici. “Non copio, li ricreo.” Faceva il muratore, la crisi edilizia l’ha costretto a tornare alla sua antica passione, ora vive d’arte.

La cultura come motore dell’economia è l’aspetto più originale di Scicli. Qui esiste l’esempio raro di un supermercato che ha chiuso per lasciare il posto a una galleria d’arte. Chi ha qualche anticaglia, un’antica farmacia da mostrare o il gusto delle collezioni, apre musei privati.

Ventisettemila abitanti, 250 impiegati comunali e 30 precari, duemila stranieri, ottocento richieste di nuove residenze, una disoccupazione ufficialmente al 19,5 per cento, l’economia delle serre in crisi,  si salvano i pochi convertiti al biologico, Scicli confida nel turismo in pieno sviluppo. Le seconde e terze case sul mare, costruite ai tempi d’oro, ora sono sfruttate per accogliere forestieri. Il primo B&B nacque nel 2003. Il comune dovette dare incentivi per aprirne altri, ora sono più di cinquanta quelli registrati. Ha successo anche l’albergo diffuso diretto da Ezio Occhipinti, con unica reception e stanze disseminate in case e palazzi, non snaturati, in un raggio di trecento metri. Le strade fungono da corridoi.

Nelle vie del centro puoi incontrare la signora della grappa, il signore della Magnum, la cognata di Pierferdi, attori, scrittori, cantanti. Molti hanno restaurato, con un sapiente recupero architettonico, vecchie case. Tra i nuovi padroni vi indicano Mariano Patanè, modello sciclitano dell’uomo che si è fatto da sé. Cominciò da geometra su una piattaforma petrolifera della Saipem, è stato nel Mare del Nord, in Kazakistan e infine a Dubai. Commercia in petrolio. Ha fama di filantropo, acquista e restaura dimore della vecchia aristocrazia. Vedendolo affacciato al balcone di palazzo Bonelli, gli riferiamo che tutti ci parlano di lui. Incuriosito, scende in strada. Gli diciamo che vogliamo imprimerci bene nella memoria i tratti della sua persona, per ricordarcene ogni volta che faremo benzina.

Ride e risponde: “Deve pensare a Renzi, il petrolio costa come l’acqua, il resto sono tasse.”

A Scicli hanno comprato casa lo scrittore Marco Steiner, collaboratore di Hugo Pratt per Corto Maltese, e il filosofo Giorgio Agamben. Raccontano che entrambi abitano presso zia Stella, vecchietta di età indefinibile. Poverissima, vive in una casa scavata nella roccia. Quando le annunciavano l’arrivo dei vicini da Milano, Venezia o New York, faceva trovare loro davanti alla porta una pietanza. Poiché Agamben non gradiva, zia Stella l’ha apostrofato: “Ma quantu semu strologhi!”

L’abitudine ai ricchi e potenti dà la certezza a un ristoratore che la scuola di piazza Italia, costruita con i criteri del modernismo razionalista del palazzo presidenziale di Brasilia progettato da Oscar Niemeyer, sarà abbattuta. Un cliente anonimo gli ha assicurato che a eliminare l’obbrobrio ci penserà lui.

La fortuna di Scicli comincia con la prima serie del Commissario Montalbano televisivo girata nel 1998 e andata in onda l’anno dopo. Nel 2002 si aggiunse il riconoscimento dell’Unesco come patrimonio dell’umanità. Nel frattempo il successo del Gruppo di Scicli aveva rispolverato il prestigio culturale della città in cui il Barocco apre a ogni svolta una quinta teatrale.

“Guccione, Sarnari e gli altri – afferma Paolo Nifosì – ci hanno aiutato a capire la nostra città, a percepire con occhi nuovi e diversi l’architettura, le campagna, i muri a secco, i carrubi, i fiori e il mare.”

La veneranda figura di Severino Santiapichi merita un pellegrinaggio nella casa di Donnalucata. Nato nel 1926 ha memoria di quasi un secolo di storia. Costretto a stare seduto su un divano in una stanza colma di libri e con una foto che lo ritrae insieme a Sciascia, si consola scrivendo e leggendo. Scherza: “Ho deciso di farmi una cultura.”

Il mestiere di giudice gli fornisce un’infinità di aneddoti come i quadri di De Chirico falsi e non falsi. Del caso Moro ricorda la delusione che gli diede uno storico americano, a cui aveva messo a disposizione gli atti processuali. “Quando lessi il libro vidi che aveva utilizzato le cronache dei giornali.”

Ricorda gli amici catanesi come il giudice Rosario Scalia e le lezioni all’università etnea di Cesare Sanfilippo, la dura vita di studente, i panini consumati alla villa Bellini, i giorni del referendum del ’46 quando al macello di Catania lui e Ugo Vittorini, fratello di Elio, furono bastonati dai monarchici. Le sue città sono quattro: Scicli, Siracusa, Mogadiscio e Roma. È tornato alle origini, “perché così doveva accadere.”  Ha compiuto la stessa parabola di padre Angelo, un vecchio compagno ora ritrovato. A Roma s’incontravano in via Panisperna, l’uno docente all’Angelicum, l’altro perché andava a studiare all’Istituto internazionale per l’unificazione del diritto privato.

Una volta, essendo in preda a uno di quei tormenti di coscienza che straziano i giudici, il prete gli diede una lezione mai dimenticata: “Non temere di fare il bene per il male che ne può derivare.”

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Redazione
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