Scandalo “Corsi d’oro”, Genovese condannato a 11 anni

Di Mario Barresi - Nostro inviato / 23 Gennaio 2017

Messina. Undici anni. Neanche un giorno in più, né uno in meno. Esattamente quanti ne aveva chiesti l’accusa. Condanna pesantissima per Francantonio Genovese, deputato di Forza Italia (ex del Pd), nel primo grado del processo “Corsi d’oro 2”. Il grande capo del sistema affaristico legato alla formazione professionale in Sicilia, con un business stimato in circa 60 milioni dalla Procura è stato ritenuto colpevole dalla prima sezione penale del Tribunale di Messina (presieduta da Silvana Grasso) dei reati di associazione per delinquere, riciclaggio, truffa aggravata (così riqualificata dall’ipotesi iniziale di peculato), frode fiscale e tentata estorsione (alleggerita dal capo d’imputazione di tentata concussione ai danni di Ludovico Albert).

A Genovese inflitta anche una multa di 20mila euro, oltre all’interdizione perpetua dai pubblici uffici; disposta anche la confisca dei beni già sequestrati (circa 5 milioni) a garanzia del risarcimento danni alle parti civili: la Regione, ma anche una decina di giovani corsisti truffati dagli enti del “sistema Genovese”. Che, secondo i giudici, è fondata anche sui legami familiari: condannato, infatti, anche il cognato Franco Rinaldi, deputato regionale di Forza Italia (2 anni e 6 mesi; la richiesta era di 5 anni e mezzo) per false fatturazioni, così come le consorti dei due ex esponenti del Pd, le sorelle Schirò: Chiara, moglie di Genovese, ha avuto 3 anni e 6 mesi; Elena, moglie di Rinaldi, 6 anni e 6 mesi; per la terza sorella, Giovanna, invece, 2 anni e 3 mesi.

Dure pene anche per 16 degli altri 19 imputati a vario titolo per titolo di associazione per delinquere, truffa, peculato, false fatture e riciclaggio. Due anni (pena sospesa) per due dei quasi-“pentiti” di questo processo: Salvatore La Macchia (all’epoca capo di gabinetto del defunto ex assessore regionale alla Formazione, Mario Centorrino) e Cettina Cannavò, ex segretaria di Genovese e tesoriera del Pd. Soltanto tre le assoluzioni. Pene pecuniarie alle società e agli enti di formazione coinvolti.

VIDEO LETTURA DELLA SENTENZA


«Una sentenza particolarmente dura, carte alla mano», commenta Nino Favazzo, difensore di Genovese, ma anche di Rinaldi e di due delle sorelle Schirò. L’avvocato sottolinea che «il tribunale ha calcato la mano», anche «alla luce di prescrizioni e riqualificazione dei capi d’imputazione», nonostante le quali «le condanne sono state in alcuni casi più pesanti delle richieste dall’accusa per reati meno gravi».

Genovese, avvistato in mattinata nel palazzo di giustizia prima dell’inizio delle oltre nove ore di camera di consiglio, non è in aula – così come i suoi familiari – al momento della lettura della sentenza. Anche se i giornalisti non messinesi sono tratti in inganno dall’impressionante somiglianza di un altro presente, l’avvocato Salvo Versaci: falso allarme.

Favazzo si trincera sulla reazione del suo assistito più importante: «Ho sentito Genovese, gli ho comunicato la sentenza e non ha commentato. Ci vedremo nelle prossime ore per fare il punto». In ogni caso, annuncia l’avvocato, «i processi hanno tre gradi e noi ricorreremo in appello dopo avere letto le motivazioni della sentenza, le quali a questo punto ci incuriosiscono ancor di più perché riteniamo che possa esserci qualche incertezza sul ragionamento del tribunale, al di là delle contestazioni per le quali mettevamo in conto la condanna».

Quasi la metà dei due anni del procedimento penale, Genovese li ha trascorsi in regime di custodia cautelare. Il suo arresto era stato ordinato dal gip di Messina nel marzo del 2014 e il 15 maggio successivo la Camera autorizzò la richiesta nei suoi confronti. Dopo una settimana in carcere, Genovese andò ai domiciliari. Il parlamentare tornò in cella, a Gazzi, il 15 gennaio 2015, dopo la decisione definitiva della Cassazione. Il 31 luglio venne scarcerato e gli furono concessi di nuovo i domiciliari. Tornò libero il 26 novembre 2015 per la scadenza del termine massimo di custodia cautelare; attualmente ha l’obbligo di dimora a Messina.

La condanna penale arriva a pochi giorni dalla batosta fiscale sui 16 milioni di euro che il deputato aveva portato all’estero nella cassaforte del “Credit Suisse” di Ginevra, scovata dalla Procura di Milano. A prescindere dal conto con la giustizia penale, dovrà pagare le tasse su quei fondi occultati. Inoltre, resta aperto il primo troncone del processo “Corsi d’oro”, che procede a passo lento davanti a un altro collegio del tribunale, oltre a uno per riciclaggio internazionale.

Conseguenze della sentenza di ieri? Sembrerebbe impraticabile l’ipotesi di applicazione della legge Severino sul seggio di Genovese alla Camera, l’avvocato Favazzo nutre «serie perplessità anche sull’automatismo della sospensione di Rinaldi dall’Ars».

Ma tant’è. L’impianto accusatorio, sostenuto dal procuratore aggiunto Sebastiano Ardita (al suo fianco anche ieri i pm Fabrizio Monaco e Antonio Carchietti) è stato quasi totalmente accolto dal tribunale. Gli imputati, grazie a prestazioni simulate, affitti gonfiati, al noleggio delle attrezzature e alla pulizia dei locali in cui venivano tenuti i corsi, avrebbero ottenuto finanziamenti extra approvati dalla Regione che erogava propri fondi insieme a quelli statali ed europei. I costi sarebbero stati gonfiati fino al 600%. Il maggiore accusatore del parlamentare di Forza Italia, è stato il direttore generale della Formazione, Ludovico Albert. Che rivelò di aver subito pressioni dal deputato messinese affinché desse un maggiore finanziamento alla società Training Service.

In particolare, Albert aveva sottolineato che Genovese, al suo rifiuto, lo avrebbe salutato con la frase: «Vorrà dire che ti attaccheremo a 360 gradi». A quel punto, per Genovese, agli altri reati si aggiunse anche quello di concussione.
Ma è tutto il certosino lavoro della Procura, in un processo con pochi testi e quintali di carte, a trovare un riscontro nella raffica di condanne di ieri. L’aggiunto Ardita, principale protagonista di questa vittoria al primo round, dimentica con apprezzabile fair play le pesanti definizioni usate, con la toga in aula, nei confronti degli imputati. E parla di «un processo difficilissimo, vinto perché, quando si mettono sul tavolo i fatti, i processi si vincono». Si concede una dedica speciale per l’ex procuratore capo Guido Lo Forte, che «ci ha insegnato due cose: non temere le conseguenze del nostro lavoro e tenere la schiena dritta, sempre e comunque».

Mentre risponde, soddisfatto, a decine di telefonate e sms, gli scappa un’amara considerazione sull’imputato-convitato di pietra: il sistema della formazione professionale, «molto più complesso di come si può raccontare in un processo, anche perché con esigenze e sensibilità diverse rispetto allo strumento, il Codice Rocco, con il quale dobbiamo giudicarlo». E questo, incarnato a Messina da Genovese e dalla sua cricca, per Ardita è un «modello che ha funzionato e che purtroppo continua a funzionare in Sicilia».

Alle otto della sera, quando i giudici escono dalla camera di consiglio per emettere una sentenza che condanna di fatto l’ultimo mezzo secolo di storia della città, piazza Pugliatti (una pancia che si allarga da via Tommaso Cannizzaro, guardando dritto il rettorato dell’università) è deserta. Qui dentro si giudica Genovese, che oltre a essere il ras della formazione e un ex big del Pd, è anche figlio di Luigi, senatore dal 1972 al 1994, nonché nipote di Nino Gullotti, leader democristiano più volte ministro. La piazza è completamente deserta. Dentro l’aula del tribunale una discreta folla di giornalisti e avvocati. Ma nessun cittadino. Né fuori, né dentro. Come se Messina – che magari aspettava con celata morbosità il verdetto al calduccio del focolare domestico, col ditino pronto sui social network – fosse del tutto disinteressata. Forse è così. Ma magari no.
Twitter: @MarioBarresi

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Redazione
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