FIRENZE – Si è morso la lingua un giorno. Ma non quello dopo. Matteo Renzi chiude la Leopolda con un intervento durissimo contro la Cgil e la minoranza Pd tra applausi da stadio dei partecipanti alla kermesse. «Il posto fisso non c’è più», suona la sveglia il premier accusando chi difende l’art. 18 di essere fuori tempo, come chi «mette il gettone nell’iPhone». E il futuro per il rottamatore è arrivato anche nel Pd: la nuova guardia renziana «non restituirà un partito del 40% ai reduci che l’hanno lasciato al 25». Altrimenti, avverte, «non ho paura se si crea qualcosa di diverso a sinistra».
Nella giornata clou dell’iniziativa renziana, il lavoro è al centro: quello che c’è o si inventa, come dimostrano le tante storie piccole e grandi raccontai sul palco. Ma anche quello che non c’è o si rischia di perdere, secondo il grido d’allarme lanciato dai lavoratori Meridiana o dalla delegazione dell’Ast di Terni, che Renzi incontra e rassicura. Ma è nell’intervento conclusivo che il premier sfida chi ieri è sceso in piazza a Roma. E dichiara “guerra” ai tanti, intellettuali come euroburocrati, che «credono che l’Italia non ce la farà e non vedono l’ora di vedere il nostro fallimento». Gufi che, è sicuro il premier, «al traguardo ci vedranno perché avremo la maglia rosa». Perché, «se il governo è una bicicletta che ci siamo andati a prendere, non è per scaldare una sedia ma per cambiare il paese». Nello spirito anche un po’ giocoso della Leopolda ma, assicura il “ragazzo” diventato premier, «prendendoci terribilmente sul serio».
Nella “madre di tutte le battaglie”, come Renzi chiama lo scontro in atto sull’art. 18, si contrappongono due mondi opposti. E il premier non sembra intenzionato a conciliarli. «Il precariato non si combatte organizzando manifestazioni o convegni», accusa chiedendo un «cambio di mentalità» alle imprese e nuove regole del gioco. «Di fronte al mondo che cambia a questa velocità, puoi discutere quanto vuoi ma il posto fisso non c’è più», è la convinzione del presidente del consiglio.
Quindi, è l’interrogativo, «un partito di sinistra che fa: un dibattito ideologico sulla coperta di Linus o chi perde il posto di lavoro trova uno Stato che si prende carico di lui? ».
Alle accuse di fare politiche di destra, Renzi risponde con la sua visione di una nuova sinistra. E affonda: «Nel 2014 aggrapparsi ad una norma del 1970 che la sinistra di allora non votò è come prendere un iPhone e dire dove metto il gettone del telefono? O una macchina digitale e metterci il rullino. È finita l’Italia del rullino». Un attacco degno del rottamatore che non convince affatto la leader Cgil Susanna Camusso che ribatte: «Renzi non ha argomenti per contrastare le cose che abbiamo detto ieri». Ma il premier è convinto di aver ragione.
Al punto di non temere che «si crei a sinistra qualcosa di diverso» perché «sarà bello capire se è più di sinistra restare aggrappati alla nostalgia o provare a cambiare il futuro».
La conta si farà, lascia intendere il leader Pd alle urne. Ma, avverte, «tutte le volte che hanno cercato lo strappo hanno perso loro». Un avviso neanche troppo velato a chi sta con difficoltà dentro il suo Pd. Rosy Bindi e l’attacco alla Leopolda “imbarazzante” sono il simbolo di un partito che non c’è più e non tornerà. «Non consentiremo a quella classe dirigente di riprendersi il Pd per riportarlo dal 41% al 25%. Il Pd non è il partito dei reduci ma del futuro». L’unico della “vecchia guardia” a cui Renzi esprime riconoscenza è il Capo dello Stato Giorgio Napolitano, al quale «va tutto il nostro affetto per le tante menzogne che sono state dette nei sui confronti». «È doveroso – aggiunge – che l’Italia per bene sia con lui». I veterani del partito, invece, sono chiamati a scegliere da che parte stare.