Quel sepolcro di epoca romana forse la prima tomba di Sant’Agata

Di Pinella Leocata / 04 Febbraio 2015

CATANIA – Se ne vede appena uno spigolo, in uno dei cortili interni dell’ex convento del Carmine, eppure questa tomba di epoca romana, costruita in blocchi squadrati di pietra lavica, potrebbe essere la prima sepoltura di Sant’Agata. Un monumento dimenticato e finora inaccessibile, chiuso com’è all’interno del «Centro documentale dell’esercito», meglio conosciuto come ex distretto militare di Catania di piazza Carlo Alberto. Eppure è ad un colonnello di questa caserma, il dottor Corrado Rubino, ora in pensione, che si deve lo studio e il rilievo della tomba e i successivi lavori di restauro condotti sotto la supervisione della Sovrintendenza. Lavori cui ha dato un contributo fondamentale l’Accademia di Belle Arti che ha stanziato i fondi necessari, ha aperto, per la prima volta, un cantiere di studio e di lavoro per i propri allievi, e realizzato, grazie ad un suo docente, l’arch. Enrico La Rosa, una ricostruzione virtuale in 3D del monumento.
 
Si tratta di una tomba «a casa», cioè di una costruzione a pianta quadrata, ampia 100 mq, e alta 6 metri dalla risega di fondazione che oggi si trova 90 centimetri sotto la quota del cortile della caserma. Una costruzione rifinita con una modanatura a forma di timpano spezzato di origine traianea. «Si tratta – spiega il colonnello Corrado Rubino, che è anche anche archeologo – di una tomba di epoca romano imperiale, databile tra la fine del II e l’inizio del III secolo dopo Cristo, in piena epoca Severiana, cioè tra Marco Aurelio e la dinastia dei Severi. Di questo tipo di tomba esistono molti altri esempi all’isola sacra di Ostia, ma sono di dimensioni molto più piccole e realizzate in mattoni. La lava, del resto, è un materiale tipico della nostra terra. Caso unico, la costruzione era perfettamente rivestita anche nella parte posteriore, indizio del fatto che doveva essere un edificio isolato».
 
Un monumento del quale si era persa la memoria tanto che il vincolo della sovrintendenza risale al 2007. Eppure, già nel 1923, ne aveva parlato Guido Libertini in una nota del «Der Alte Catane» indicandolo, erroneamente, come la possibile tomba di Stesicoro. Nel 1926, però, corregge l’errore, ma lo fa con un articolo pubblicato in una rivista specializza di scarsa diffusione. Nel 1990 l’archeologo Wilson lo definisce il «monumento inaccessibile» e, negli stessi anni, il prof. Torelli, in una guida della Sicilia, ne parla come di una tomba romana. «Del resto – spiega il dottor Rubino – l’area dove sorgeva questa tomba, in epoca romana, era una grande necropoli monumentale, che, non a caso, fiancheggiava la via Pompeia, la strada consolare che univa Messina a Siracusa. Strada che – in questo tratto – era ad un livello inferiore di 4 metri rispetto alla colata lavica preistorica su cui era stata edificata questa tomba che, dal basso, doveva apparire enorme, imponente, spettacolare. Non solo. Nella facciata sud si aprono quattro finestrelle disposte a raggiera in modo che i raggi del sole, entrandovi, convergevano in un unico punto, su un sepolcro che ne veniva illuminato conferendogli un’aurea sacra».
 
La tomba di una persona speciale, dunque. «La possibile sepoltura di Sant’Agata», sostiene il colonnello Rubino rifacendosi a fonti secentesche, agli storici Caetani, De Grossis e Vito Amico. E non sarebbe un caso se, fino a qualche anno fa, la chiesa del Carmine, insieme a quella di Sant’Agata la Vetere, erano le sole dove il fercolo di Sant’Agata entrava.
Perché, se non per un’antica memoria? E del resto anche il convento del Carmine, dopo il terremoto del 1693 che lo rase quasi al suolo, fu ricostruito prevedendo un ampio corridoio che, dall’ingresso della chiesa, sviluppandosi lungo la facciata, porta direttamente alla tomba romana. Un non senso dal punto di vista architettonico, spiegabile soltanto con l’importanza del sito. Va ricordato, inoltre, che, sotto le macerie del terremoto, perirono quasi tutti i frati carmelitani e il convento fu ripopolato da confratelli che arrivavano da Trapani, figli di un’altra storia, di un’altra tradizione. Forse anche questo spiega la progressiva perdita della memoria del luogo.
 
Infine, il monumento fu sottratto alla devozione popolare quando quella parte del convento divenne, dopo i moti del 1848, caserma borbonica. Eppure – racconta il colonnello Rubino – della memoria di Agata, il suo probabile sepolcro non più accessibile, i frati carmelitani lasciarono traccia dedicandole una teca, nel secondo altare di sinistra della chiesa, con la scritta «Hic fuit Agatae virginis et martiris». Teca che accoglie una giovane donna con il volto di cera, in realtà costruita per la baronessa Rosanna Petroso Grimaldi, trucidata a 22 anni, nel 1783, dal marito, il marchese Orazio di Sangiuliano.
 
Oggi la tomba romana non è di immediata lettura perché ne è stato restaurato soltanto un angolo esterno, nella piccola parte, un quarto, che appartiene alla caserma Santangelo Fulci. La restante parte è dei padri carmelitani che la danno in affitto come deposito agli ambulanti del mercato di piazza Carlo Alberto.
Non solo. Neppure la parte di proprietà dei militari è stata riportata alla condizione originaria tant’è che, irriverente ironia della storia, mostra ancora le vasche dove venivano immersi, in acqua e zolfo, i giovani militari affetti da malattie veneree. Questa, infatti, era la «sala celtica» del reggimento dedicata ai malati di sifilide. Nel 1991 i lavori del Genio Civile hanno portato alla luce, lungo la parete di una scala, parte del muro esterno della tomba. E altri lavori di recente sono stati fatti dall’Accademia di Belle Arti che, con la generosa autorizzazione del comandante Fontana, ha demolito parte del magazzino dei viveri della caserma che impediva la vista e la fruizione del monumento.
 
Un monumento che adesso va recuperato e restituito alla città, con l’impegno di tutti, a partire dall’ammistrazione comunale e dalla sovrintendenza.

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Redazione
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