Quanto ci costa (in ecosostenibilità) un gustoso piatto di spaghetti a ricci
Quanto ci costa (in ecosostenibilità) un gustoso piatto di spaghetti a ricchi
Intervista con il biologo marino Emanuele Mollica: «Spesso sono pescati clandestinamente»
Estate, mare, ferie. Ma anche mangiate di pesce. E, a Catania, terra di sushi autoctono da sempre, anche di frutti di mare crudi. Ricci, occhi di bue, patelle, perfino il “mauro” l’alga che mangiavano i nostri nonni con sale e limone. Tutta roba che si trova regolarmente sui banchi della pescheria, ma a quale prezzo? Non parliamo di euro, ma di ecostenibilità. Fino a quando possiamo pensare di mangiare occhi di bue (a 80 euro al kg sui banchi del pesce) saccheggiando i fondali? Per quanto tempo siamo disposti ad ipotecare il mare alle future generazioni per un piatto di spaghetti con i ricci pescati in maniera massiccia e senza scrupoli? «I ricci che noi mangiamo non sono le femmine, come si crede comunemente – spiega Emanuele Mollica, biologo marino e direttore dell’Area marina protetta Isole Ciclopi – è una specie “colorata” che ha maschi e femmine e si chiama Paracentrosus Lividus mentre quello che chiamiamo riccio “maschio” è un’altra specie non commestibile, qualla nera con gli aculei più lunghi. I ricci sono soggetti ad un “overfishing” cioè una pesca eccessiva e quindi le loro dimensioni si riducono, il quantitativo è sempre minore e, inoltre, raccogliendo solo una delle due specie, l’altra, che è competitrice, finisce per avere campo libero e ce ne saranno sempre di più».
E gli occhi di bue?
«E’ una vera tragedia. Non sarebbero buoni da mangiare, noi catanesi siamo gli unici al mondo che li consumiamo. La pesca dell’occhio di bue è quasi esclusivamente clandestina e vietata dalla legge perché fatta con le bombole abusivamente: Per catturare questi animali vengono rivoltate le pietre sul fondale danneggiando la specie. Ormai la dimensione delle conchiglie è sempre più ridotta. Diventa adulta in tre anni e raggiunge i 5 cm ma potrebbe arrivare anche a 7-8 cm, ma ormai questa misure ce le siamo dimenticate».
Non c’è una legge che obblighi a rispettare le misure?
«Esiste semplicemente una legge che vieta la pesca subacquea con le bombole».
E se si pescano in apnea?
«Si fa comunque un danno ambientale enorme, perché girando la pietra, tutto quello che ci vive sopra, e che è amante della luce, finisce al buio e viceversa, quindi non si uccide solo il mollusco ma anche la vegetazione».
C’è ancora l’uso della pietra celeste (il solfato di rame che si gettava per far “uscire” il mollusco e i polpi dalle tane ndr)?
«Sì alcuni la utilizzano ancora, ma oggi la stragrande maggioranza dei raccoglitori “gira” le pietre, è molto più veloce. Tenete presente che per raccogliere circa un chilo di questi molluschi bisogna rivoltare un’area di circa un ettaro di fondale. Forse è arrivato il momento di evitare di comprarli. Ci sono tanti, troppi pescatori abusivi, anzi bracconieri, chiamamoli con il loro nome. Ciascuno ne prende circa un chilo al giorno, calcolate voi il danno ambientale».
Ma non esiste una regola come per i raccoglitori di funghi, per esempio un tesserino?
«Ripeto, è proprio vietata la pesca con l’autorespiratore. Se venissero raccolti come si faceva vent’anni fa dai pescatori, di notte con la lampara, che li tiravano su con il gancio dalla superficie, allora sarebbe una pesca sostenibile».
E per i ricci che limiti ci sono?
«Gli appassionati che vanno con maschera e pinne possono prenderne al massimo 100 al giorno».
Da dove viene la polpa di riccio che vendono nei supermercati?
«In genere dall’oceano, ci sono alcuni paesi che hanno delle regolamentazioni, per esempio in Australia, dove la specie è molto più grande, ci sono dei pescatori professionisti autorizzati che possono prelevare delle quote prestabilite e in determinati punti. La polpa di ricci che troviamo al supermercato non proviene dai nostri mari».
Ma come si fa a sapere dove vengono raccolti, se sono sicuri da mangiare?
«Io non vedo grossi rischi da questo punto di vista nel consumo dei ricci. Certo, se c’è un’immissione inquinante da terra è evidente che è più pericolosa nei primi metri dalla costa, anche se poi c’è l’effetto diluizione… ».
Ma se un pescatore abusivo va a prendere ricci ad Aci Trezza vicino allo scarico fognario, il consumatore come si difende?
«Se va a pescare ad Aci Trezza vicino alla fogna infrange un triplice divieto: pescare nell’area protetta, violare l’ordinanza sanitaria che vieta la balneazione vicino agli scarichi e mettere in pericolo la salute di chi mangerà quei ricci».
Non mi pare che ci sia tutto questo rispetto per le regole. I ricci che arrivano sulle nostre tavole chi li certifica?
«Nell’80 per centro dei casi è roba pescata clandestinamente con metodi vietati. E’ vero che alla capitaneria di porto di Catania sono registrati dei pescatori subacquei professionisti che hanno una licenza speciale per raccogliere fino a mille ricci al giorno con le bombole, ma la maggior parte del pescato è clandestino ed è bene che si sappia. Lei pensa che una persona che non ha alcuno scrupolo di andare a pescare clandestinamentesi ponga il problema di andare a raccogliere ricci, per esempio, nella baia di Augusta dove c’è un forte inquinamento? O accanto ad una fognatura? Che gliene frega… ».
Possibile che non si possano mettere dei freni a questa situazione?
«Guardi, le dico una cosa. C’è un pescatore abusivo habitué ad Aci Trezza, che pesca occhi di bue con le bombole. E’ un pregiudicato, non dico il nome per la privacy, il quale ha accumulato 90mila euro di sanzioni amministrative che ovviamente, non paga perchè risulta nullatenente e, quindi, non teme alcuna confisca, oltre a tredici avvisi di reato per pesca abusiva. Ebbene, continua ad essere lì tutti i giorni, perché gli occhi di bue glieli pagano 70 euro al kg».
Quindi mi sta dicendo che non si può fare nulla?
«Il metodo più efficace è quello di avvertire il consumatore che delinque anche lui se consuma gli occhi di bue, un po’ come è stato già fatto, con una specifica campagna d’informazione, per vietare il consumo di datteri di mare».
Sì, ma allora non si dovrebbero neppure vendere in pescheria e nei ristoranti…
«Certo, purtroppo succede che, ai controlli della capitaneria di porto il ristoratore di solito è in grado di dimostrare, con fattura, l’acquisto ufficiale del mollusco e, questo, perché probabilmente c’è qualche commerciante che si presta a fatturare questo pescato che altrimenti non potrebbe essere fatturato perché non proviene da una pesca autorizzata ufficialmente».
Quindi si tratta di fatture false?
«L’ha detto lei… ».
C’è chi va a pescare nell’area marina protetta?
«Rispetto ai primi anni il fenomeno è molto più ridotto. Certo, c’è sempre quello che vede un bel sarago e pensa di poterlo catturare ma c’è anche la videosorveglianza i controlli della capitaneria di porto, del nostro personale, e poi ci sono anche gli altri utenti che segnalano situazioni di questo tipo. Abbiamo qualche problema in più la notte».
In pescheria vendono il “mauro” ai turisti, un piattino 4 euro…
«E’ pericolosissimo, è un’alga che appartiene al genere Girartina, predilige le acqua poco salate e, infatti, vive dove sfociano i fiumi sotterranei ad Ognina, a S. Giovanni li Cuti, al porto di Catania. Va da sè che se il suo habitat naturale è in prossimità degli scarichi inquinanti… ».
Il punto è che il catanese doc non si pone il problema, né di impoverire il mare, né di prendere un’intossicazione. Di fronte allo spaghetto con i ricci perde la coscienza ambientale semmai ce n’ha una…
«Lo so, il nostro lavoro è quello di divulgare queste informazioni. Chi ha una coscienza, magari evita di mangiare un piatto di spaghetti con i ricci e opta per un buonissimo piatto di pasta con le vongole o con le cozze che sono allevate e controllate. La prima tutela dell’ambiente è a tavola. Vale la pena mangiare un piatto di occhi di bue sapendo che per quel piatto si distrugge mezzo ettaro di fondale marino?».COPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA