Lamentarsi dell’assenza di investimenti esteri per poi gridare allo scandalo quando importanti gruppi stranieri fanno acquisizioni in Italia è schizofrenico, specialmente se queste operazioni generano interessanti prospettive industriali, come nel caso dell’operazione dei cinesi sulla Pirelli siglata ieri.
La vendita di rilevanti quote fuori confine, al di là delle apparenze e delle eccessive semplificazioni “sull’italianità” in un’epoca di mercati globalizzati, trasforma la Pirelli in predatore, non in preda, come molti hanno erroneamente detto e scritto in queste ore.
Esaurite le polemiche, a bocce ferme, è palese che così fu per l’ingresso dei russi di Rosneft, e sarà così per i cinesi di China National Chemical Corporation.
Il capitalismo italiano, notoriamente senza capitali, deve andare a prendere le risorse dove ci sono, senza paura o spocchia.
Tutti vorremmo che fossero le nostre aziende a fare shopping all’estero – ove possibile ho sempre sostenuto questa tesi – ma, purtroppo, non viviamo in un mondo ideale. Poiché la realtà racconta rapporti di forza diversi, ci sono solo due strade: chiudersi in uno sterile protezionismo provinciale, che alla lunga diventa esiziale, o percorrere l’unica opzione possibile oggi per competere, e cioè stringere alleanze funzionali ai nostri interessi.
Da quanto emerso finora, il colosso cinese da 36 miliardi di dollari di fatturato che entrerà nella scatola di controllo della Pirelli al prezzo record di 15 euro per azione (altro che “svendita”), rappresenta proprio questa opportunità. L’opa totalitaria e un momentaneo delisting dalla Borsa, consentiranno infatti a Pirelli di scorporare la divisione mezzi pesanti da quella auto, in un’ottica di specializzazione e innovazione produttiva, nel ragionevole tentativo di andare a coprire la fascia medio–alta del mercato dei pneumatici. Questo processo, con cui i cinesi metteranno sul piatto 3,5 miliardi per avere una partecipazione “non finanziaria ma industriale”, oltre a produrre dividendo per gli azionisti e a rafforzare la base di capitale, aprirà definitivamente l’immenso mercato cinese ai prodotti della Bicocca.
E se anche Pechino avrà il controllo, sarà Marco Tronchetti Provera a gestire il gruppo fino al 2021, con sede e tecnologia che resteranno in Italia.
Perché considerare negativo tutto ciò? Si dice: Pirelli è al quarto riassetto in pochi anni. Ma questo è un merito. Seppur senza un sistema–paese alle spalle, è diventata una potente multinazionale con base italiana (il 94% del fatturato è estero), attraendo così i grandi investitori stranieri, oggi al 46% del capitale.
Negli anni buoni, il maggiore gruppo petrolifero di Mosca (Rosneft) decise di prendersi la metà esatta della Camfin. Oggi, con la crisi ucraina, le sanzioni e il crollo del prezzo del petrolio, tutti i giganti russi si sono indeboliti, e Tronchetti è stato abile a trovarsi un nuovo compagno di viaggio. Approfittando della (giusta) scelta di Renzi di aprire l’Italia ai capitali cinesi, e dopo la mossa di Cdp sulle reti, Pirelli ha segnato un punto tanto clamoroso quanto decisivo per il suo futuro. Invece di gridare contro la calata dei barbari, si prenda coscienza che – coniugate con strategie industriali efficaci e una sapiente visione geopolitica – queste operazioni sono indispensabili. Anzi, ce ne fossero.
(twitter @ecisnetto)