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Nick Mason, il signore dei tamburi a Taormina
Qui si fa la Storia. Della musica e del costume. Perché se Roma non è stata costruita in un giorno, figuriamoci la carriera dei Pink Floyd che, dal febbraio 1967 ad oggi, hanno tracciato un solco tra loro e il resto del mondo musicale, dove pochi, pochissimi altri, possono permettersi di camminare. E lo sa bene Nick Mason che se non rientra nel novero dei “best drummers in the world”, con il suo metronomo è riuscito a imporre il ritmo a una carriera memorabile, producendo vere e proprie opere che si avvicinano più alla musica classica e sinfonica (per “atemporalità”) che non al rock.
Uno di questi esperimenti è legato al secondo album dei Pink Floyd, “A Saucerful Of Secrets” che segna l’ormai definitivo allontanamento di Syd Barrett (il “Crazy Diamond”) dalla band di Gilmour, Waters, Wright e Mason. “Nick Mason’s Saucerful Of Secrets The Heartbeat of Pink Floyd” è il concerto che il batterista porterà il 12 luglio al Teatro antico di Taormina.
Mr. Mason, da dove nasce l’idea di portare in tour l’album “A Saucerful Of Secrets”?
«La cosa divertente è che non è stata una mia idea, ma di Lee Harris, anche per incoraggiarmi a continuare a suonare. Lui ha contattato Guy Pratt, perché sapeva che, altrimenti, non l’avrei preso sul serio. Ma ho lavorato con Guy per trent’anni e lui era molto entusiasta di far parte di questo progetto. Poi si è unito Gary Kamp. Così, non sono stato tanto io a creare la band ma è stata la band a cucirsi su di me. Ed è venuto fuori materiale molto buono. Siamo lontani dall’essere una tribute band dei Pink Floyd».
La prima frecciata agli ex compagni è lanciata. E’ stato, insomma, come se la band abbia voluto che lei si unisse in una sorta di celebrazione alternativa, non ad un tributo in senso classico.
«Sono stato catapultato in questo progetto. La cosa che mi ha attratto è stato l’approccio alla musica, suonare con lo stile, il feeling del periodo, senza preoccuparsi di doverlo riprodurre in modo preciso. Spero che quello che passi sia lo spirito di tutto questo, piuttosto che, per forza, ogni canzone riproposta passivamente».
In che modo si sviluppa la scaletta?
«Negli ultimi mesi abbiamo trovato l’idea di ciò che sarà la set list. All’inizio abbiamo suonato molte canzoni e le abbiamo riarrangiate durante il percorso. Quando eravamo in Europa, l’anno scorso, abbiamo aggiunto due o tre canzoni. Quindi la set list cambia un po’ ogni volta».
Una carriera invidiabile come batterista dei Pink Floyd: un onore o, dopo tutti questi anni, anche un peso ingombrante?
«No, non è assolutamente un peso. E’ ancora molto stimolante averci a che fare. E’ la mia storia e mi sento a mio agio».
Da ragazzo, prima che i Pink Floyd entrassero nella sua vita, come si vedeva nel futuro? Avrebbe mai immaginato un tale successo?
«No, non ne avevo idea. Pensavo di avere un piano per il mio futuro, perché ho studiato per fare l’architetto. Credevo che la mia carriera si sarebbe sviluppata in quel senso. Mio padre ne era appassionato, perciò sono stato proiettato nel mondo delle macchine e moto da corsa (è uno dei maggiori collezionisti di auto di lusso e vanta anche un discreto numero di Ferrari nel suo garage, ndr). Pensavo, quindi, che avrei fatto qualcosa in questo campo. Ma non avevo, in primis, idea che sarei diventato un musicista né, tantomeno, potevo immaginare che avrei raggiunto questo livello».
C’è stato un momento preciso in cui ha realizzato di essere arrivato dove mai avrebbe potuto immaginare o, solo ora, alla fine della sua carriera… ops, ho detto fine… pardòn…
Per fortuna Nick Mason, noblesse oblige, prende la nostra gaffe a ridere.
«No, non c’è un preciso momento. La maggior parte del tempo vivi nel presente. Se mai c’è stato un momento in cui ho guardato indietro e ho realizzato cosa stavamo facendo e cosa avevamo fatto, è stato quando ci siamo ritrovati al Victoria & Albert Museum di Londra per “Thei Mortal Remains” e, poi, a Roma l’anno scorso. All’improvviso vedi tutto sistemato, le immagini, la musica e tutto il resto. Quindi, suppongo che se c’è stato un momento, storicamente, in cui me ne sono reso conto, è stato molto di recente».
A mio avviso, la musica dei Pink Floyd è musica classica, al pari di Beethoven, Wagner e Mozart. Perché, secondo lei, a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta, si è fatta la storia della musica rock con band come la vostra, i Led Zeppelin, i Black Sabbath, mentre oggi la musica è diventata un fenomeno “mordi e fuggi”?
«Penso che quella sia stata una sorta di Golden Age. Non ha per forza a che fare con la qualità della musica, ma con la sua rilevanza a tutti i livelli. Purtroppo, nel ventunesimo secolo, la musica si è svalutata. La gente pretende che sia gratis. Perciò si è persa quella passione che forse esisteva quarant’anni fa. Penso che sia questa la ragione per cui le persone tornano sempre a quei tempi. Guardiamo l’esordio dei Beatles: tutti sapevano tutto di loro. Oggi, quando emerge una nuova band, solo pochi la conoscono, non avrà mai la stessa importanza che avevano certe band nel 1972».
Quindi, questo fenomeno non ha a che fare con la qualità o la bravura degli artisti, piuttosto è una questione sociale?
«Dico che ora la qualità del talento musicale è fantastica, è quasi impossibile porle un limite. Ma oggi, per una band, arrivare al punto di guadagnarsi da vivere facendo musica, è molto più difficile che in passato».
Si parla sempre più insistentemente di una possibile reunion dei Pink Floyd…
«Non c’è un piano per una reunion. E’ per questo che sto andando per conto mio, con la mia band. Certo, sarebbe un grande evento, ma non credo succederà».
Quindi, per ora rimarrà solo un sogno del vostro pubblico?
«Sì. Penso proprio di si!».
(Ha collaborato Francesca Castro Traversa)COPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA