«Uno che decide di fare l’architetto non è un solitario, un filosofo che si ritira a contare le pietre nere del Mar Nero. E’ un intellettuale che vorrebbe cambiare non il mondo, certo, ma molte oscenità che lo circondano».
E’ Fuksas, l’unica sfumatura possibile in un’architettura che, nel corso della Storia, ha operato soltanto sui contrasti del bianco e nero. Massimiliano Fuksas, invece, cerca le sfumature importanti, quelle capaci di coniugare rigore stilistico e arte di sorprendere. Lavora sugli spazi attraverso la trasparenza del vetro e dell’acqua. Lavora, appunto. Non costruisce né distrugge. Elabora. Perché quel che è fatto può soltanto essere modificato, abbellito. Anche tutto ciò che, solitamente, l’uomo riesce ad abbrutire.
Come accade sovente in quella Sicilia che, novello Gattopardo 2.0, Fuksas definisce «Caos sublime». Il perché non resta che chiederlo a lui, all’architetto, all’archistar. Ma non chiamatelo così, per carità.
Piuttosto, preferisce essere definito, semplicemente, un artigiano.
Accetta di sottoporsi alle nostre domande dopo aver ipnotizzato, quasi domato, la folla in un incontro nell’arena ragusana di piazza San Giovanni, organizzato dal sindaco pentastellato Federico Piccitto e moderato dal collega Michele Nania.
« U «Spari la prima! » esordisce l’architetto che, anni fa, avevamo avuto l’onore e l’onore di intervistare in occasione della presentazione del progetto di riqualificazione di Porta Palazzo, a Torino, insieme all’amico Mario Merz, principale esponente dell’arte povera e che Fuksas ricorda con grande emozione e affetto.
E, allora, spariamo la prima. Architetto, lei ha definito il popolo siciliano «portatore di caos sublime», quel caos sublime che è anche il titolo del libro scritto da lei con la complicità di Paolo Conti.
«I siciliani, dato che sono perfetti e perciò non devono cambiare, sanno vivere con la complicità della loro storia e di una tradizione estremamente complessa e variegata. Questo modo di vivere trasforma il brutto in un qualcosa che diventa bello, e tutto in qualcosa di pulsante, reale. Il caos sublime è una qualità che ha questo popolo e che possiede quest’isola, dove non si riesce a trovare la chiave dell’algoritmo, che è quello che regola il caos e che nessuno ha mai trovato, ma che esiste. È l’aspetto del sublime, il lato poetico dell’essere umano».
Appunto, è quasi poesia…
«Mi spiego. Di giorno le persone escono di casa, camminano in auto oppure a piedi, occupano i luoghi, le strade, le piazze, gli uffici. Poi, quasi per incanto, tutto ritorna semplice e normale quando le persone tornano la sera a casa. Nel corso della giornata si determina una serie di tracciati, di percorsi, che difficilmente si canalizzano ma che sono lì, legati all’essere umano. Ecco perché la città appartiene all’uomo. Ed è proprio dalla città, dalla sua struttura, dal modo di viverla che se ne comprendono passato e futuro».
Incontrando il pubblico di piazza San Giovanni, a Ragusa, ha detto che questa è una città atipica, che non ha un centro…
«E’ vero. Lo vedo come un fatto positivo. Guardate la struttura della città. Ragusa Superiore e Ibla rappresentano la modernità».
Sì, lei la mette sul lato positivo. Io volevo portarla verso qualcosa di negativo. Cioè, lei ha collaborato alla progettazione di Etnapolis, uno dei più grossi centri commerciali della Sicilia orientale. Non crede che la piazza abbia ceduto lo scettro di punto d’aggregazione ai centri commerciali? Oggi ci si va non solo per fare acquisti ma per passeggiare, per far giocare i bambini, per pranzare, per incontrare gli amici…
«C’è una ragione molto semplice in tutto ciò. Negli ultimi anni abbiamo esteso le nostre città oltre i confini del tempo e del giorno. Dove non esiste più la struttura della città storica, il centro commerciale o, per meglio dire, il polo commerciale, assume il ruolo di corso, di strada principale. La vera questione è che per fare una città servono innanzitutto gli abitanti, poi ci vuole la cultura, e serve anche il commercio. Se viene a mancare uno di questi elementi ci troviamo soltanto davanti ad un fallimento, ad una città artificiale che prende il posto della città reale».
Lei afferma di non aver votato, per diversi motivi, alle due ultime elezioni. Quanto ritiene che, in questo momento, la politica sia lontana dai bisogni della gente, dalle esigenze della città?
«La politica di oggi è il contrario della polis. Nasce dalla polis e le sfugge. Ha perso il proprio senso. Per spiegarmi meglio devo necessariamente parlare del mio passato. Sa com’è, ormai ho un’età e vivo anche di ricordi… Circa trent’anni fa scrissi che le rappresentanze erano finite. Parlavo degli anni 70. Nel ‘77 il movimento dell’autonomia rappresentava quel senso di distacco dal ‘68 vittima dell’ ideologia, così come dal concetto di sindacato. Il 1977 è, per me, l’anno della fine della rappresentanza sindacale. C’è un tentativo, nel frattempo, di cambiare pelle ma la verità è che i partiti sono un dato terminale della nostra società, non solo in Italia ma in tutto il mondo. Circa la metà degli italiani va a votare.
Lo ‘sconfitto’ Grillo rappresenta il primo partito politico e prende unmare di voti alle ultime elezioni europee. Questo è un dato molto importante che rappresenta il fatto che il concetto di partito è ormai superato. Ciò che determina la storia del mondo, oggi, è l’economia, la finanza. Ci sono sei, sette finanzieri, c’è Goldman Sachs, c’è un sistema economico più chiaro e preciso di prima che regola tutto. Dobbiamo farci una ragione del fatto che sindacati e partiti non hanno più motivo di esistere, bisogna inventarsi un nuovo modo di esprimersi. Beppe Grillo è riuscito a spaccare l’egemonia dei due grandi partiti ma non potrà andare oltre questo successo».
In Italia viviamo anche lo psicodramma della questione Giustizia.
«La Giustizia non funziona ormai da decine e decine di anni. Non avevamo bisogno delle sceneggiate di Berlusconi per scoprirlo. E’ regolata da un meccanismo che non ha più efficacia, non funzionano più i concorsi, non ci sono sedi adeguate, viene gestita in un modo estremamente conflittuale che non da’ risposte. Vogliamo allora parlare della legge elettorale? Chiamatela ‘post porcellum’, ‘fratellum’ o come più vi aggrada, ma quel che personalmente mi interessa di più è che ci sia davvero qualcuno in grado di cambiare il paese nella sostanza: primo, azzerare la corruzione; secondo, rendere il fisco possibile; terzo, realizzare un’edilizia e un’urbanistica migliore regalando alle città uno sviluppo completamente differente… ».
E allora, architetto, riusciremo a cambiare qualcosa in meglio?
«Sì, ne sono convinto».
Una risposta che suona come incoraggiamento a quei giovani futuri architetti che la ascoltano durante i suoi incontri. Per chiudere. Lei è un appassionato di cinema. Io amo la musica. E’ per questo che il suo modo di fare architettura l’ho sempre comparato alla musica dei Kraftwerk e a quel movimento di rottura che sta in mezzo tra la vecchia musica e la modernità. Si ritrova in questo paragone?
«La prego, non lo faccia dire a me. Aumenterebbe il mio ego all’infinito. Quella dei Kraftwerk è ‘musica di sintesi’, un po’ come il progetto che io e Doriana (architetto e moglie di Fuksas, ndr) abbiamo realizzato occupandoci della Biennale di Venezia del 2000 con il claim ‘Less aestethics more ethics’. Ci sono altri universi da scoprire e noi abbiamo aperto la strada. Credo che ci saranno tanti altri con noi e dopo di noi».
Lei sta dicendo ai giovani di lavorare perché, adesso, vuole essere lei a prendere spunto da loro?
«E’ la traduzione di quello che ho detto. Aspetto dai giovani architetti le nuove ispirazioni. E questo è il destino dell’uomo… ».
Architetto, è più buono il suo passito o quello di Carole Bouquet?
«Il mio passito è superiore a qualunque altro perché ne produciamo soltanto 150 bottiglie solo per noi.
Se superi quel limite la qualità diventa discutibile. Un passito deve avere una sua densità, un suo profumo, un suo colore».
Il passito rappresenta l’essenza della Sicilia.
«Voi siete perfetti, io l’ho sempre detto. Purtroppo il Gattopardo aveva ragione. Il principe di Salina è l’uomo della grande sintesi. Alla fine, si torna sempre lì, a quel mondo stratificato che ha una cultura profondissima che anche quando non sembra, poi, alla fine, c’è».