CATANIA – Il suicidio del poliziotto penitenziario di 46 anni in servizio al nucleo traduzioni della casa circondariale di Catania Bicocca, che si è tolto la vita a bordo della sua auto nelle campagne di Caltagirone, lasciando moglie e due figlie adolescenti, riporta in primo piano il problema delle carceri italiane, dove sempre più spesso detenuti e “custodi” continuano a togliersi la vita nell’indifferenza generale. Donato Capece, segretario generale del Sappe, ha ricordato che «nel 2014 sono stati 10 i casi di suicidio nelle file della Polizia Penitenziaria». Altre cifre parlano di oltre cento poliziotti penitenziari che si sono tolti la vita dal 200 a oggi. Spesso le cause segrete dietro questi gesti sono da attribuirsi al degrado delle carceri del nostro Paese, dove in condizioni disumane non vivono solo i detenuti – come denuncia continuamente l’Unione europea – ma anche gli agenti della polizia penitenziaria.
Condizioni che poi sovente portano a gesti estremi, le cui motivazioni reali spesso restano oscure ma che potrebbero essere spiegati con la cosiddetta sindrome del burnout, ovvero un eccessivo carico emotivo attribuito al lavoro, con assenza di fattori motivanti. Il burnout è legato alle professioni d’aiuto (helping profession). Queste sono le professioni che si occupano di aiutare il prossimo nella sfera sociale, psicologica, etc. Si parla quindi di infermieri, medici, psicologi, psichiatri, assistenti sociali, preti ecc. Queste figure sono caricate da una duplice fonte di stress: il loro stress personale e quello della persona aiutata. Ne consegue che, se non opportunamente trattate, queste persone cominciano a sviluppare un lento processo di “logoramento” o “decadenza” psicofisica dovuta alla mancanza di energie e di capacità per sostenere e scaricare lo stress accumulato. Letteralmente burnout significa proprio “bruciare fuori”. Dunque è qualcosa d’interiore che esplode all’esterno e si manifesta.
Burnout è quindi il “non farcela più”, l’insoddisfazione e l’irritazione quotidiana, la prostrazione e lo svuotamento, il senso di delusione e di impotenza di molti lavoratori e conduce gli operatori a diventare apatici, cinici con i propri “clienti”, indifferenti e distaccati dall’ambiente di lavoro. Se a questo si aggiunge che nel caso dei poliziotti penitenziari, l’ambiente di lavoro è il carcere – dove si condividono spazi ristretti in una nota condizione di sovraffollamento e dove si è sollecitati da richieste plurime, si capisce che il problema non è solo psicologico e va affrontato anche con interventi di carattere organizzativo da parte del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria.
E’ per questo che il segretario generale aggiunto del sindacato Osapp, Domenico Nicotra, ha chiesto nuovamente al capo del dipartimento di affrontare seriamente i problemi della polizia peniteziaria che – come ha ricordato Donato Capece – è uno dei cinque Corpi di Polizia dello Stato italiano.