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Le erbe spontanee: imparare a raccoglierle e a cucinarle
I tempi sono maturi, infatti, per regolarizzare una pratica che, negli ultimi anni ha preso sempre più piede: andar per verdura in campagna. Ne sono testimoni i componenti dell’Associazione Stelle e ambiente, ormai pronti a far partire (il 16 febbraio a Catania in collaborazione con il Cai) l’ottavo corso sulle piante selvatiche mangerecce e velenose. Tre lezioni teorico-pratiche (fino all’11 marzo) con tanto di esercitazione “sul campo” armati di coltello e cestino per imparare non solo a riconoscere le piante eduli da quelle velenose, ma anche la tecnica giusta per raccoglierle, per pulirle, per cucinarle, per ottenere il massimo dei benefici salutari dal consumo di questi “regali” della natura. Però, attualmente, chiunque raccolga verdure spontanee può venderle senza alcun controllo, a qualsiasi angolo di strada.
Eppure, si sono verificati diversi casi di consumatori intossicati da verdure selvatiche velenose vendute per buone. Uno degli ultimi, quello della signora di 67anni che, ad Enna, ha rischiato di morire per aver mangiato della “mandragora” acquistata da un venditore ambulante che le aveva venduto la verdura per “bietole” selvatiche.
La velenosa Mandragora (a sinistra), spesso confusa con le bietole selvatiche (a destra), i “séchili”
Di qui la proposta di “normare” la raccolta di cicoria & Co. «Cercheremo di fare breccia nel legislatore regionale – anticipa il presidente di Stelle e Ambiente, Giuseppe Sperlinga – affinché vengano emanate delle leggi in modo che, chi andrò a raccogliere verdure sia una persona qualificata o, quantomeno si rivolga, a dei centri in cui siano presenti degli esperti che controllino queste piante. Esattamente come è stato fatto per i funghi la cui raccolta è subordinata al rilascio di un tesserino e la vendita alle autorizzazioni dell’Asp. Del resto, altre regioni d’Italia hanno già messo in pratica queste regole, vedi il Trentino».
Nel frattempo, conoscere particolarmente queste piante può aprire prospettive diverse sul piano dell’alimentazione. «Spesso andiamo dal nutrizionista per seguire una dieta equilibrata e sana – argomenta la biologa Giovanna Marletta – e ci consiglia, per esempio, di consumare le verdure selvatiche perché rispetto a quelle coltivate, non sono trattate con diserbanti, fertilizzanti, concimi chimici». Vero è che nessuno conosce la provenienza delle montagne di verdura selvatica esposta sui cofani delle auto da ambulanti improvvisati. Se si tratti, cioè, di piante cresciute sul ciglio di strade trafficate o vicine a campi concimati con prodotti nocivi. Il corso insegna anche a raccogliere le verdure in luoghi quanto più possibile “vergini”.
La borragine
«Infatti bisogna separare le piante che crescono vicino le strade, intossicate dai gas di scarico – spiega il prof. Salvatore Arcidiacono, decano degli etnobotanici siciliani – e quelle che si trovano nei poderi dove sono stati utilizzati insetticidi. E, poi, non si tratta solo di riconoscere una pianta velenosa da una mangereccia, ma scoprire che tra quelle che consideriamo “erbacce” ci sono piante importanti dal punto di vista organolettico. Per esempio, esiste una bietola selvatica che non ha confronti con quella coltivata. Ha un sapore completamente diverso e si capisce quando si utilizza in cucina».
I caliceddi
Se la fitoalimurgia (la conoscenza delle specie vegetali ad uso alimentare ndr), considerata da “sorella povera” della micologia, era stata già codificata già dal ricercatore Giovanni Targioni Tozzetti nella seconda metà del Settecento, l’arte di cucinare con le piante spontanee è stata sempre una tradizione “necessaria”, soprattutto in tempi difficili, quando le mamme, pur di far vivere in maniera meno traumatica le tragedie delle guerre ai figli, si inventavano di tutto mettendo sui fornelli quello che raccattavano nei campi. Riscoperta oggi per ragioni salutistiche, la fitoalimurgia si porta dietro, infatti, un bagaglio di cultura popolare tramandato dai rimedi della nonna e in tanti detti popolari.
I cacocciuliddi
«Oggi c’è un ritorno – aggiunge Giovanna Marletta – grazie ad una certa consapevolezza sul consumo di cibo sano. Ma c’è anche un’altra motivazione del boom dei corsi di fitoalimurgia, quella di stare a contatto con la natura, respirando aria pulita. Toccare un albero, toccare la terra, restituisce a chi lo fa una ricchezza inaspettata. Raccogliere le verdure, andare a casa, pulirle, cucinarle con amore, ti riporta anche ad uno scorrere del tempo più lento, a contatto con i ritmi dell’anima».
Corsisti a lezione di piante selvatiche mangerecce
L’identikit del corsista medio è presto detto. Si tratta, nella maggior parte dei casi di adulti dai 30 anni in su, ma ci sono anche gli studenti che iniziano per accumulare crediti formativi e poi si appassionano perché magari hanno sentito parlare di verdure selvatiche dai nonni. Poi c’è anche tanta gente che le verdure le conosce già, ma vuole approfondirne la conoscenza (magari con un approccio più scientifico, con tanto di nome in latino, classificazione, proprietà etc.) e l’utilizzo in cucina al di là della frittata con la borragine. Le verdure selvatiche, in tempi di cucina degli scarti, insegnano anche a non buttare via nulla. Il brodo di borragine, per esempio, è rimineralizzante, e quello all’ortica fa bene alle ossa».
Lo Stramonio, detto anche erba del diavolo, è velenoso e ha effetti allucinogeni
Tra le indicazioni per raccogliere le piante spontanee molte sono il comune con quelle per la raccolta dei funghi. Si utilizza un coltellino, e un sacco in tela o un cesto di vimini. A volte servono anche i guanti da giardiniere, per esempio per raccogliere i “cacocciuliddi” i carciofini selvatici spinosi. «Crescono solo nella piana di Catania – ricorda il prof. Arcidiacono – il carciofo selvatico, infatti, non cresce sul terreno vulcanico e i “cacocciuliddi” si trovano solo lì».
Twitter: @carmengreco612
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