L’odore, il suo mistero, il suo peana. In natura è impensabile un odore oltre il tempo, il luogo, lo spazio. Nella corruttela di natura un odore ha in sé le stimmate della consunzione e, per quanto intenso potente prepotente, un odore si archivia tra altri odori che vivono l’attimo d’una vita che sgocciola attimi, una vita bocciata nella sua richiesta d’asilo all’eternità, clandestina per disìo, solo per disìo, nella patria del sempre, vittoriosa invece nel precario feudo del qui e ora.
Ci sono odori che non conoscono dogane di tempo né di spazio, odori che incavernano dentro l’anima in gravidanza infinita, non immiserita da quell’effimero umano che divora ogni prospettiva e ogni prece d’eternità. Per questi odori, la buccia d’arancia sul braciere dei nonni, la marmellata di prugne fatta in casa, la carta stampata, non serve l’olfatto, serve la poesia dell’evocazione a tenerli in vita oltre la Vita stessa. Per questi odori non è una minaccia nemmeno l’acido più terribile, né il virus più letale, magari progettato per ammazzare popoli interi, cancellandone ogni traccia di passato e presente.
Odori che non si dimenticano perché dimenticarsene è disumanizzarsi, è derogare il sentimento ad affidatari senz’anima, il web le chat il veloce paramondo dei social, che divorano senza nutrirsi senza nutrire.
Quando un’edicola muore non muore mai il suo odore, anche dopo decenni quell’odore ti sorprende come dopo una tempesta di grandine l’arcobaleno che, nel suo amplesso di colori, lega cielo e mare, seminando odore di bellezza.
L’odore d’un giornale stampato di notte, e non importa se fuori c’è il diluvio o la tramontana, e non importa se il giornalista ha un febbrone da cavallo, mette in ginocchio persino l’odore di pini secolari che da lontano sembrano giganti in preghiera. Non si ferma mai il giornale, non si fermano i suoi uomini, eroi silenziosi d’un’epica quotidiana combattuta con cuore penna passione e devozione a quel Patèr che diventa padre a tutti gli effetti, ben oltre la miseria della genetica biologica.
È il primo odore della giornata, quando ancora è buio fuori e lontane le erinni del sole e abbassate le saracinesche dei bar più mattinieri, il suo odore inonda il quartiere e l’edicola, si mescola alla raviola ca ricotta e ai bombuluni di crema al cioccolato, veglia i suoi abitanti, dà la squilla del giorno che avanza coraggioso, pur col suo carico d’affanni e delusioni. Sì coraggioso, perché ce ne vuole di coraggio per affrontare l’alea d’una nuova avventura, la sua croce, ce ne vuole dopo il divino dono della notte per ricominciare, lottare, arrivare al traguardo della sera tra tante sconfitte e qualche vittoria.
E quando penso all’odore del giornale, all’odore d’un’edicola, penso a quell’odore unico, che non assomiglia a nessun altro, odore di uomini che raccontando la Storia attraverso le storie della cronaca della politica dello sport della cultura e vi lasciano addosso un patrimonio di sentimenti, un gorgo emotivo, che lo raccontano un giornale assai maglio di come possa fare chi, scrittore, racconta di sé e del mondo per pagine e capitoli. Quando il giornale arriva, arrivano con lui in edicola tonnellate d’umanità, ansia, paura, speranza, ma come nella più gloriosa tradizione epica si continua combatte fino all’ultimo sangue e, ogni giorno, si rinnova la promessa, la fede, la passione, la devozione.
Di carta non posso fare a meno, di carta mi nutro non solo metaforicamente, dalla carta mi lascio sedare e sedurre, ma anche schiaffeggiare sgridare quando, succede e come se succede, tra bulli e balordi, ottusi e truffatori, truffatori di Stato non truffatori alla totò, vorrei svoltare l’angolo, abbandonarmi completamente alla mia “edicola” interiore, sradicare da cuore anima sensi quella maledetta vis pugnandi, quella ricerca di giustezza e giustizia che sempre più spesso sento sulle mie spalle come la croce sulle spalle di Cristo. Ma poi ci pensa la carta, quel che la carta racconta, a processarmi condannarmi assolvermi. Un’edicola, lo chiamavano chiosco, a Giarre fu il mio catasto magico. Ci passavo tutto il pomeriggio e un paio di volte lasciai il mio asilo di corso Sicilia, dove m’annoiavo a morte, per il mio chiosco dove osavo sperimentavo azzardavo, dove imparai da sola a leggere scrivere tra odori colori fumetti quotidiani e fotoromanzi d’amore, che mi saziavano assi più della minestra di mia madre. La signora del chiosco, me la ricordo già molto anziana, mi chiamava Sirbana, io sola a Giarre mi chiamavo silvana tra tante alfiuccia graziella rita nunziatina, e ogni volta commentava la stranezza del mio nome. Morì prima che io andassi alle elementari, chiusero le saracinesche del chiosco, e io per mesi ogni giorno mi facevo due chilometri a piedi e di corsa sperando di trovarla aperta e lei dentro e per questo avevo pattuito col Signore dieci preghiere al giorno ma anche venti. Andavo al chiosco dietro all’odore della carta come il cane che, dietro all’odore del suo padrone, lo aspetta sulla tomba per mesi e anni.
Non riaprì mai più e io perdetti la mia più autentica famiglia, quella di carta. Chiedevo carta a tutti, anche alla pescheria, dove al banco del pesce Bastianu mi dava una magnifica carta gialla ruvida da coppo del pesce che, schizzata di tonno, odorava anche di mare. In quel chioschetto nacque il primo contatto col mondo, che non fosse il quartiere della case popolari dove, senza carta e senza libri, m’affamavo di carta, dove tutti mi chiamava Sirbana, ma senza commentare come invece commentava la vecchia signora del chiosco, che ci restava male quando rifiutavo una caramella sfusa, le teneva sfuse in un saccone di plastica, e chiedevo in cambio “carta”. Sulla carta fu avarissima, la carta la vendeva a risme, oppure in quaderni, chiusa in uno scrigno irraggiungibile per me che non avevo le poche lire per un quaderno o una risma, e non sapevo neanche cosa fosse una risma.
Ebbi però tanta carta usata, carta da giornale in cui chi vendeva verdura con la carretta in strada avvolgeva broccoli o pumitti da muntagna. Ne raccattavo ogni giorno ovunque e questo salvò le mie piccole mani da altri lividi di sangue che sembravano stimmate, e in un certo senso lo furono. Per qualche paginetta di carta nuova che strappavo assottigliando il quaderno a righe della prima elementare, per poterci scrivere quel che volevo, mia madre mi bucò entrambi i palmi delle mani con un grosso ago da lana, non solo quella volta. Avevo cinque anni, pensava fosse un capriccio. Non lo era.