La storia di Pino Leto “U’ miricanu” che rischiò di diventare un killer
La storia di Pino Leto “U’ miricanu” che rischiò di diventare un killer
Nato alla Vucciria, a Palermo, trovò nel pugilato la scelta vincente di vita e legalità
Quando viene al mondo, siamo all’esordio del “boom” economico. Ma per lui, Leto “u miricanu” (l’americano), all’anagrafe Giuseppe (Pino) Leto, classe 1957, c’è invece la fame, la miseria, gli stenti di una parte della città di Palermo, il rione della Vucciria, ancora lacerato dai bombardamenti della seconda guerra mondiale. In quell’angolo del centro storico per strada si fa a botte, cresce la violenza per sopravvivere tra le bancarelle di frutta e verdura; dei pescivendoli che mostrano sarde, polpi, triglie e calamari nei banconi o le teste di agnello, i “quarti” e la “quarume” (le interiora degli animali), esposti all’aperto nelle macellerie; e poi quelle storiche “balate” delle strade sempre bagnate dall’acqua che i venditori adoperano per tenere “vive” la mercanzia esposta (frutta e verdura su tutte).
Immagini poi “immortalate” dal grande pittore bagherese Renato Guttuso nella sua “pala” dedicata, appunto, alla Vucciria. In questo rione compie i primi passi “u miricanu” tra le botte e le violenze subite in casa e soprattutto per strada. Pino Leto riuscirà dopo tanti sacrifici e stenti ad emergere, a riscattarsi, cosa che non faranno altri suoi coetanei. Chi “inghiottiti” dalla lupara bianca, chi assassinati per strada, chi invece rinchiuso per sempre dentro una cella del carcere.
Lui no, non si piega al malaffare, anzi nel “ventre molle” del quartiere venne considerato uno “sbirro”, uno che aveva tradito le regole dell’omertà, mentre tra i vicoli, i larghi ed i “bassi” del rione si consumavano gli episodi di microcriminalità. Aveva anche fatto il “palo” in occasione di una tentata rapina compiuta da altri suoi coetanei e componenti la stessa banda e poi se ne era pure pentito.
Dalla strada al ring, il passo non è stato breve. Anzi… La svolta della sua via arriva alla metà degli anni Settanta quando uno dei suoi amici di strada frequentava una palestra alla periferia di Palermo, la “Gimnasium” e gli disse: «Miricanu. Sei fatto per fare pugilato, hai grinta e coraggio. Perché non provi? ».
E Pino non se lo fece dire due volte ed iniziò a frequentare, soprattutto la sera, quella palestra dove oltre alla boxe venivano insegnate anche altre discipline sportive, come il judo, il karate e le arti marziali. Lavora duro, non solo in palestra, ma anche nella vita facendo mille mestieri pur di sbarcare il lunario, come si dice in questi casi (imbianchino, carpentiere, muratore, scaricatore di casse).
La sua determinazione lo porterà, invece, lontano conquistando in poco tempo otto titoli di campione italiano dei pesi superwelter (dal 1985 al 1988) e la “cintura” di campione europeo sempre dei superwelter (1989). Complessivamente ha disputato tra i professionisti 34 match: 23 vittorie di cui 8 per ko, 7 sconfitte (6 ko) e 4 pareggi. Durante la sua scalata sportiva il pugile venuto dalla “fame” non si monta la testa, rimane sempre quel ragazzo umile, “ultimo degli ultimi” della Vucciria che per lui è stata però “matrigna”. In tutti i sensi. Lo abbiamo incontrato in redazione, in occasione dell’uscita del suo libro autobiografico “Dalla strada al ring” (Nuova Ipsa Editore) e con lui abbiamo in un paio d’ore di un’intensa chiacchierata abbiamo ripercorso la sua vita di “picciotto” di strada fino a grande professionista della boxe. Lui che assapora i primi successi dai “quadrati” di mezza Italia così come anni prima aveva fatto un altro palermitano, Nino Castellini, morto poi tragicamente in un incidente stradale. Pino, se non avessi fatto il pugile, la vita cosa ti avrebbe riservato? «Sono sincero, come sempre. Io sono nato in un quartiere difficile come quello della Vucciria, dove ho fatto la fame. Dove per sopravvivere ho dovuto lavorare e fare tanti mestieri. Dove la criminalità era all’ordine del giorno e dove anche ho visto ammazzare amici che facevano la fame come me e che poi sono diventati “picciotti” e manovalanza della mafia. Se non avessi fatto il pugile, sicuramente sarei stato uno di loro. Un killer».
Perché per anni ti hanno chiamato “u miricanu”? «E’ una lunga storia. Mia madre Caterina fece la “fujtina” con mio padre Filippo. Lei aveva diciassette anni e lui diciannove. Mia nonna era contraria a quel matrimonio. Nel 1956 mia mamma aveva avuto in meno di cinque anni quattro figli (Toto I, morto dopo undici mesi di vita, Giovanna, Totò II e Natale, ndr), quando si accorse di essere di nuovo incinta voleva liberarsi. Voleva abortire. Non poteva far venire al mondo, in quella miseria, un altro figlio. Cercò in tutte le maniere di abortire anche dandosi colpi di “cuppino” (mestolo, ndr) sulla pancia. Poi decise di tenere il bambino. Ero io e venni al mondo nella primavera del 1957. Ero bello, grassottello, pesavo quasi cinque chili. Mia madre si era pentita dei suoi tentativi di eliminarli e quando nacque, mi venne poi raccontato esclamò: “Matri mia ch’è bieddu, pari un miricanu”, cioè somigliavo a quei attori-bambini dei film americani».
I primi anni della tua vita sono stati costellati dalla miseria, dalla fame. Dalle violenze subite dentro e fuori casa. Hai mai odiato qualcuno? «Anche in questo caso devo essere sincero. Non mi sono mai pentito di nulla. Certo che ho odiato. La prima persona è stato mio padre Filippo che ogni giorno per le mia marachelle mi dava 50 frustate adoperando il tubo di plastica, ma non nel sedere, bensì sulle gambe. Ed erano dolori. Io avevo dieci anni e pensavo “quando diventerò grande ti pugnalo mentre sei a letto”. Odiavo la mia vita. Potevo mai avere pietà? Perché mi rifiutava? Sai quante volte in quei momenti ho pensato “perché sono nato? ”».
Poi la svolta della tua vita. Frequenti la prima palestra ed inizi a boxare… «Quanti sacrifici. Quanti ricordi. Uno su tutti e lo racconto spesso, quando partecipai ai campionati italiani novizi, nel 1975 a Treviso. Il mio debutto. Per la prima vola presi l’aereo che atterrò a Mestre. Io gli aerei fino a quel tempo li avevo visti soltanto in tv e in bianco e nero. Quanta paura durante il decollo e l’atterraggio. Paura di precipitare. Disputai due incontri e li vinsi entrambi per ko».
Pino, ma tu hai paura? Paura di qualcosa in particolare? «No. Io non ho paura di nessuno. Sono Pino Leto. Un campione venuto dal nulla. Dalla strada. E sai quanto fortifica la strada? ».
La svolta agonistica arriva quando approdasti nella scuderia del manager Umberto Branchini… «Vero. Verissimo. Per me iniziò una nuova vita dopo la “gavetta” tra i dilettanti e il girovagare per l’Italia protagonista sempre in diversi combattimenti. Il mio esordio tra i prof arriva il 2 maggio 1981, a Messina. Avversario un pugile di colore, lo zairese Folly Muyanga Kia. Quel match lo vinsi ai punti, malgrado partii come facevo di solito “sparato”, mandandolo subito al tappeto nella prima ripresa. Folly però non si arrese e volle finire l’incontro che mi aggiudicai ugualmente».
Ti ricordi quale avversario hai più temuto e soprattutto quello che ti ha fatto faticare più di tutti? «Certo che lo ricordo come se fosse ieri. Non solo perché lo temevo, ma anche perché ho ricevuto una grande “carrettata” di pugni, di quelli che ti fanno male e ti lasciano i segni. Combattei contro lo zairese Mabodo Kamunga a Marsala, il 23 dicembre 1981. Io sono alto un metro e settanta e lui era uno e novanta. Un armadio. Comincia il match, al solito: attaccando ma non era serata. Il “nero” non mi diede scampo fui colpito da un gancio che mi mandò al tappeto. Fu durissima. Dopo sei vittorie di fila, il match si chiuse in parità».
Hai vinto otto titoli italiani, mentre la cintura europea la conquisti nel 1989, all’età di 32 anni. Cosa ricordi di quella serata?
«La ricordo, eccome. Era il 20 agosto e tutti mi davano per spacciato per via dell’età. Così non fu perché vinsi il titolo europeo per ko contro Edip Sekowitsch, a Terracina. Conquistai una borsa di 25 milioni di lire. Con quei soldi acquistai la mia prima auto, i mobili per la mia casa e tanti giocattoli per i miei figli. Ma ci giocavo io, perché da bambino non avevo mai avuto un giocattolo».
Un tuo merito è quello di avere allontanato dalla strada tanti ragazzi e li hai allenati portandoli in palestra. Chi ricordi in particolare?
«Ho allontanato dalle brutte tentazioni tantissimi ragazzi, molti dei quali dello stesso mio quartiere. Ho tolto dalla strada Michele Orlando poi diventato campione internazionale superwelter o anche Totò Inserra. C’è persino Paolo Ferrara, un “tir”, peso massimo, una macchina da pugni, che ha conquistato anche il titolo italiano. Bravo ragazzo, però si “montò” la testa».COPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA