La nuova politica, tra media, èlite e popolo

Di Paolo Magnano / 09 Ottobre 2016

In questi giorni il CENSIS, in collaborazione col Ucsi (Unione Cattolica della Stampa Italiana), ha rilasciato alle stampe il 13° rapporto sulla comunicazione. Il libro ricostruisce il fenomeno dell’attuale consumo di informazioni, descrivendo la grande trasformazione che ha posto “l’io-utente al centro del sistema mediatico” e approfondisce il processo di personalizzazione e desincronizzazione di quella sorta palinsesto delle notizie frutto della nostra nuova abilità nel processo di disintermediazione digitale.

Ma è il titolo che mi colpisce: “I media tra élite e popolo” ed il frequente riferimento dei ricercatori a questo nuovo popolo “disintermediato”; che poi è ciò a cui stiamo assistendo in questa nuova ondata di neo costituzionalisti, di esperti di bilanci e di partecipate, di mafie e di censori di qualsiasi forma di progresso, presenti in ogni angolo del nostro mondo web-condiviso.

Avevo letto con piacevole orgoglio il rapporto del 2012 dall’accattivante tema “I media siamo noi. L’inizio dell’era biomediatica” e pensavo che proprio il fabbisogno di politica avrebbe tratto giovamento dalle disintermediazioni delle nuove tecnologie e dai vari social che in quegli anni cominciavano a pressare sui nostri device. Ma se la “fenomenologia del selfie” è una delle immagini simboliche di questo processo che coinvolge papi, governanti, star e gente qualunque; oggi stiamo assistendo ad un allargamento di quel solco tra élite e popolo, favorito dagli strumenti della disintermediazione digitale che si prestano, come si legge nel rapporto: “all’opera di decostruzione delle diverse forme di autorità costituite, fino a sfociare nelle mutevoli forme del populismo, antisistema e radicale…”.

Lascio ad altri il tema su quale idea e quale reale esperienza di pluralismo e di libertà si stia veicolando; ma ciò che mi preoccupa, anche per tornare in area di vicende locali, è questa zona di sfiducia nelle classi dirigenti al potere e di rigetto delle istituzioni di lunga durata che si saldano alla fede nel potenziale di emancipazione delle comunità attribuito ai processi di disintermediazione resi possibili dai nuovi utilizzi della rete.

Mi domando con quale serenità oggi si possa celebrare un omaggio alla bellezza di una città con una straordinaria serata organizzata dal maggiore quotidiano nazionale e partecipare alla stampa di una pagina celebrativa con un budget irrisorio se considerato il costo contatto sul media in questione. E mi chiedo quindi come una macchina comunale possa far ripartire l’economia del proprio territorio se qualsiasi tipo di idea “industriale” che vada dalla realizzazione di una pista ciclabile alla capacità di aprirsi ai mercati internazionali, passa poi dal tritacarne dell’informazione disintermediata, attraverso la quale orde di rivoluzionari della tastiera non mettono poi i propri concittadini nelle condizioni di comprendere o di farsi un’opinione e magari sono anche capaci orientare le scelte strategiche in chiave eccessivamente populiste.

I professori Thor Berger (Department of Economic History, School of Economics and Management, Lund University) e Carl Benedikt Frey (Oxford Martin School, University of Oxford & Department of Economic History, School of Economics and Management, Lund University) nel loro piccolo paper dallo stimolante titolo: “Technology shocks and urban evolutions: did the computer revolution shift the fortunes of U.S. Cities?” hanno analizzato come le “disruptive innovation” cioè l’effetto dirompente dell’innovazione digitale, sia stato ed è un big-bang che sta mietendo illustri vittime in tutti i settori dell’economia ma che è anche una grande opportunità per creare nuove occasioni di sviluppo altrettanto rapide, secondo loro, e con costi molto contenuti nelle grandi città americane.

Se i periodi di cambiamento comportano naturalmente grossi timori guardando a tutto ciò che è oggetto di disruption, questi rappresentano anche grossi vantaggi per riposizionarsi nei nuovi contesti. Occorre però che questa nuova società disintermediata sappia cogliere le opportunità con grande determinazione, concentrando le risorse ove si vede un futuro e non dissipandole, al di là di quanto richiesto per rendere la transizione meno dolorosa e socialmente più accettabile per tenere artificiosamente in vita realtà destinate a sicura morte. È un grosso problema per le nostre città e per il nostro sistema di cittadinanza che sembra puntare più alla conservazione del passato che non alla costruzione del futuro, che privilegia un pensiero antico rispetto ad un nuovo utilizzo dell’intelligenza condivisa.

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Redazione
Tag: censis comunicazione cultura magnano