Il premio Danzuso a Camilleri: «Il teatro? una necessità contagiosa»

Di Ombretta Grasso / 07 Dicembre 2015

Sempre avvolto da una nuvola di fumo, come nella saporita imitazione di Fiorello, con la coppola in testa, come un buon siciliano, ironico e sornione, come chi ha vissuto più di una vita, l’animo abitato da una moltitudine di figure memorabili, personaggi pescati dalla cronaca o inventati, storie, aneddoti, ricordi pronti a diventare protagonisti di carta dei suoi amatissimi romanzi, Andrea Camilleri è uno scrittore, drammaturgo e regista amato in tutti i continenti ma sempre inevitabilmente siculo. E’ arrivato al successo all’età della pensione, poco più di vent’anni fa, con il Commissario Montalbano e con una carrellata di personaggi vivi e sorprendenti in una Sicilia solare e sanguigna, inventando un siciliano-italiano diventato tesoro di tutti, dai “cabbasisi” a “camurria”, fino a “di pirsona pirsonalmente” di Catarella. Prima del planetario succeso come scrittore, Camilleri è stato regista per il teatro e per la tv, e funzionario della Rai occupandosi della produzione di serie come “Il tenente Sheridan” o “Maigret”. Stasera a Catania – al Teatro Verga, alle 20.30 – gli sarà consegnato il Premio alla carriera intitolato a Domenico Danzuso, indimenticabile critico teatrale di questo quotidiano per mezzo secolo, firma prestigiosa e appassionata, scomparso nel 2000. Camilleri, che lo scorso settembre ha festeggiato 90 anni, non sarà presente ma ha inviato un video messaggio. Nel corso della serata saranno riproposti alcuni momenti della “Concessione del telefono” con gli attori Pippo Pattavina, Alessandra Costanzo e Angelo Tosto.

 

Adorato e temuto, Micio Danzuso è stato per molti anni “il” critico siciliano per eccellenza. Ha un ricordo della sua “militanza”?

«Sono molto orgoglioso e molto felice di ricevere questo premio che mi onora, anche perché mi viene dalla città di Catania e dal suo Teatro Stabile dove ho lavorato molto come regista – risponde Camilleri – Danzuso era un critico molto temibile. Lo dico sinceramente. Era uno di quei critici che non si nascondevano dietro un dito o dietro un giro lungo di frasi. E se una cosa non gli era piaciuta, aveva la correttezza di dire il perché non gli era piaciuta. Ogni volta che ho fatto degli spettacoli a Catania, anche se erano andate bene come pubblico, quando aprivo le pagine de La Sicilia, un leggero batticuore ce l’avevo. Perché Danzuso, da critico rispettabilissimo, non si limitava ad una superficialità di “resoconto”. Era un critico! Se oggi c’è da fare una critica alla critica teatrale, mi si passi il bisticcio, è quella che avviene sempre più spesso di leggere “resoconti” della serata, dello spettacolo recensito. Questo avviene anche in letteratura dove ci sono i recensori e i critici. Ecco non era un recensore, Danzuso, era un critico, un critico importante».  

 

Nell’appello per lo Stabile di Catania ha ricordato le volte in cui vi ha lavorato come regista. Com’è stato il rapporto con Mario Giusti, «amico indimenticato»?  

«Un ricordo di Mario Giusti è poco per poterlo raccontare. Mario, e insieme a lui Turi Ferro, erano, in quei momenti storici, il Teatro Stabile di Catania. Ricordo la prima volta che venni allo Stabile, fu una cosa felice. Io avevo chiamato, fuori da Catania, in un’altra produzione, Turi Ferro ad interpretare il bandito Salvatore Giuliano, protagonista di un testo di Giuseppe Berto “L’uomo e la sua morte”. Il lavoro aveva vinto il premio indetto dalla Pro Civitate Cristiana di Assisi. Io l’avevo messo in scena proprio nella città umbra. Allora Turi, finite le repliche mi disse “ma perché non lo facciamo a Catania? ”, e così andai. Mario Giusti da allora mi chiamò a fare altre regie».  

 

C’è un episodio, un aneddoto da ricordare?  

«Mario era un uomo spiritoso, e sapeva essere amico senza mai bisogno di chiederglielo. C’è un episodio, che le cronache non riportano, che è singolare. Proprio in quegli anni, Mario mi venne a trovare a Roma per chiedermi di fare la regia de “Il giorno della civetta” di Leonardo Sciascia. Mi dice “è un progetto grosso cui teniamo molto, vorremmo affidare la riduzione a Giancarlo Sbragia”. Per carità, dico, mi inviti a nozze. Mi metto in contatto con Sbragia, per lavorare alla riduzione, si stabilisce la data del debutto e così tutto sembrava a posto. Prima di iniziare le prove io ero impegnato con una regia a Palermo, “La favola del figlio cambiato”, però le date non si accavallavano, perché debuttato a Palermo avrei iniziato a Catania. Tant’è vero che addirittura durante le prove del Pirandello avevo avuto due giorni di pausa e con Mario decidemmo che sarei sceso a Catania per parlare con lo scenografo Contraffatto, e stabilimmo anche di poter fare la prima prova con gli attori a tavolino, con i ruoli tutti distribuiti. E così fu. Se non che, la sera che dovevano arrivare le scene del Pirandello, era l’ante prova generale, le scene non arrivano. A Palermo spariscono tutti, nessuno che sapesse darmi spiegazioni. Passano i giorni e Mario preoccupato mi chiama da Catania per dirmi che le prove della “Civetta” devono iniziare. Insomma, disperato sono costretto a fermare le prove, ma non so cosa dire a Mario, perché nessuno dice niente a me. Per caso, allora, incontro Franco Mannino, il compositore e gli racconto tutto. Franco che era al Teatro Massimo, il lirico di Palermo, si mette a ridere e dice: “Ora te lo spiego io che cosa è successo: le tue scene le stavano realizzando al Teatro Massimo. Ma le hanno dovute interrompere perché hanno dovuto lavorare a quelle dello spettacolo di Luchino Visconti che fra tre giorni debutta con un’opera scritta da me”. Oh mamma mia!, esclamo. Mi precipito al Teatro Massimo e mi rendo conto che Franco mi aveva detto il vero. Le mie scene me le avrebbero consegnate dopo una settimana. E con Catania ora, come faccio? Nel frattempo, anche lui disperato, mi vedo comparire davanti Mario. Che mi dice “Andrea, che vuoi fare? Ci hai ripensato? Non lo vuoi fare più lo spettacolo? ”. Allora gli racconto tutto. Mario, con la lucidità che gli era propria, pari alla sua enorme simpatia mi dice: “Noi non possiamo spostare il debutto. La situazione si risolve così: tu telefoni ad un regista amico, che mantenga le scene che hai fatto fare, la distribuzione degli attori e ti sostituisca integralmente”. L’unico regista disposto a farmi un simile favore era Mario Landi. Gli telefonai, Landi partì immediatamente per Catania e la regia la fece lui. Ed io mi presi il rimbrotto di Leonardo che mi disse “Certo Berto lo hai fatto, Sciascia no! ”».  

 

Lei ha insegnato per tanti anni all’Accademia, che consiglio darebbe ai giovani teatranti?  

«Il teatro è contagioso. Chi si occupa di un settore del teatro non può fare a meno di farsi contagiare da chi si occupa di un settore contiguo. Per esempio, i vecchi macchinisti di teatro parlavano con battute delle opere teatrali. Il teatro entra dentro di te e ti mette in conflitto con te stesso. Chi recita è un uomo in carne ed ossa, non un’ombra che parla dallo schermo. In alcuni momenti, da spettatore, devi fare uno sforzo di ragione per capire di stare ad assistere al verosimile e non al vero. La gente ha veramente bisogno del teatro. Si dice: il teatro è un servizio pubblico. Lo è proprio perché è una necessità primaria dell’uomo. Si dice: il teatro è in crisi. Io ho novant’anni e da quando ho iniziato a fare teatro, cioè settanta anni fa, sento ripetere che il teatro è in crisi. Ebbene credo fermamente che la condizione di crisi sia la condizione abituale del teatro. Questo direi ai giovani che voglio intraprendere oggi questo mestiere».  

 

Lo Stabile ha realizzato con successo alcune riduzioni dei suoi romanzi, c’è un suo testo che vorrebbe vedere in scena?  

«Certo, in particolare uno, che presenta un respiro mitteleuropeo e dunque adatto a girare anche fuori dalla penisola. Come ho già spiegato, sono molto legato allo Stabile etneo, e qualche anno fa ho accolto con grande entusiasmo la proposta del direttore Giuseppe Dipasquale di trasporre per la scena“Il birraio di Preston” e “La concessione del telefono”, due miei romanzi molto amati dai lettori che hanno avuto una bellissima accoglienza anche da parte del pubblico teatrale. Siccome non c’è due senza tre, stiamo progettando per il 2017 la messinscena di una pièce “La creatura del desiderio”, tratta da un mio racconto dedicato al burrascoso rapporto tra Alma Mahler e Kokoschka. Ancora una volta la drammaturgia sarà firmata a quattro mani da me e da Dipasquale, che ne curerà la regia».

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Redazione
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