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Il mio amico Giovanni tra tanti ominicchi

Di Giuseppe Ayala |

Non conosco una persona che non ricordi esattamente dove si trovava e cosa stava facendo nel momento in cui ebbe notizia della strage di Capaci. E lo stesso vale anche per quella di via D’ Amelio.

Sono passati venticinque anni, ma quel ricordo rimane scolpito nella memoria. È indelebile. L’ultima volta che l’ho visto, Falcone era disteso su un lettino nella camera mortuaria dell’ospedale Civico di Palermo. Eravamo soli. Gli ho stretto con forza le mani. L’ unico segno di quello che gli era capitato si materializzava in una piccola ferita sul sopracciglio. Per il resto sembrava davvero che dormisse. Ma, con il passare del tempo, mi accorgo che prevalgono sempre di più i ricordi legati ai dieci anni di vita che abbiamo condiviso. È così che me lo porto dentro. Con quello sguardo e quel sorriso sulle labbra che cementavano un’ intesa e una complicità granitiche.

Il nostro fu amore a prima vista. Ci piacemmo subito perché, su una base solida di idee e valori condivisi, ciascuno dei due era affascinato dalla diversità caratteriale dell’altro. Lui, timido e prigioniero del suo self control. Io, estroverso e tendenzialmente casinista. Il gusto dell’ironia ci accomunava e teneva lontana la cosa che meno ci interessava: la noia. Assieme non l’abbiamo mai vissuta. Lo stesso non posso dire della paura. Ma non le abbiamo ceduto. A chi mi chiede di descrivere il nostro rapporto, rispondo sempre che quell’uomo mi ha cambiato la vita due volte. Quando ci è entrato e quando se n’è andato.

Ho imparato moltissimo da lui e, gratificato dalla piena fiducia che mi concedeva, mi sono sentito in dovere di dare sempre il massimo per non deluderlo. Ho così scoperto di essere migliore rispetto a quanto sino ad allora pensassi. Anche questo gli debbo. E non è poco. Forse per questo continua a mancarmi malgrado i tanti anni trascorsi e tutte le cose che, nel frattempo, ho fatto. Continuo, e non di rado, a pensare: “Chissà che ne direbbe Giovanni”. Oppure, nei momenti di incertezza o di dubbio: “Ah! Se ci fosse Giovanni!”. So bene che è una ferita che non si rimarginerà mai. L’unica cosa che posso fare è imparare a conviverci, come si fa con le nevrosi. Non sempre ci riesco.

Fermo qui i ricordi. Sono personali. Riaffiorano puntuali ma non sono sempre gli stessi. Prevalgono sempre di più quelli legati ai sentimenti, alle fragilità, alle delusioni e all’incredibile tenerezza del fratello maggiore che un figlio unico si è trovato accanto per dieci irripetibili anni. A partire da quel maledetto 23 maggio Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Vito Schifani, Antonio Montinaro e Rocco Dicillo appartengono a un bene collettivo: la memoria e, cioè, a un monolite imponente e ben definito che racchiude l’eredità che il loro sacrificio ha lasciato a tutti. Perderla equivale a dilapidare un patrimonio di valori e di esempi. Tutti quelli che la possediamo dobbiamo impegnarci a mantenerla viva e a trasmetterla agli altri, soprattutto ai giovani perché si impegnino a costruire il futuro sulle fondamenta dei valori affidatici dal passato. Falcone di quella memoria è l’incarnazione non per come è morto, ma per come è vissuto.

Un autentico innovatore capace di vedere oltre il confine riservato agli altri. E forse anche per questo non compreso, criticato e osteggiato all’interno del suo stesso ambiente, quello della magistratura, e delle istituzioni in genere. Fatte salve poche, minoritarie eccezioni. Grazie al suo inedito “metodo” furono ottenuti, nel contrasto alla mafia, successi sino ad allora inimmaginabili. L’intera collettività avrebbe dovuto essergli grata e, per essa, le Istituzioni democratiche. E, invece, gli furono affibbiati , specie dai suoi colleghi, epiteti del tipo: il giudice sceriffo, il giudice planetario, il turista giudiziario, tanto per citarne alcuni dei più frequenti.

Aveva proprio ragione Mario Pirani che, qualche anno fa, paragonò Falcone all’Aureliano Buendia di Garcia Marquez che “dette trentadue battaglie e le perdette tutte”. Dopo la sua morte, un’autentica schiera di ominicchi ne ha rivendicato l’amicizia. Mentre, finché era vivo, sarebbero state sufficienti le dita delle mani per elencare quelli veri. Un campionario di umana miseria che non merita neanche un rigo in più. Lo merita, invece, il ruolo delle “ menti raffinatissime” e dei “centri occulti di potere” citati proprio da Falcone all’indomani del fallito attentato dell’Addaura del giugno 1989.

Sono convinto, e non sono il solo, che quel “ruolo” ha anche a che vedere con le stragi di Capaci e via D’Amelio. Sono state due stragi mafiose, non c’è dubbio, ma non soltanto tali. Le ha determinate una convergenza di interessi con pezzi opachi e deviati delle istituzioni. È probabile che non si arriverà mai a illuminare tutto lo scenario abbozzato da Falcone nel 1989. Resterò, allora, come ho già scritto, solo un puntino non rassegnato confuso tra la folla degli orfani della verità. Mi conforta pensare a una bella frase di Françoise Sagan: “Non sappiamo mai quali sorprese ci riserva il passato.” Una mi sarebbe molto gradita. Non è difficile capire quale.COPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA

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