E’ un assassino. E lui non solo non lo nega, ma non si è nemmeno mai pentito. I suoi amici e complici sì, lui no. Per lungo tempo si è anche guadagnato da vivere barando alle carte e ai dadi spennando riccastri tedeschi ad Amburgo. E lo racconta come se si fosse trattato di un qualunque lavoro svolto da un monsier Travet qualunque. Eppure, per una qualche ragione, l’istinto durante la lettura di «Malerba» (Mondadori, 384 pp, 18 euro), è quello di fare il «tifo» per Antonio Bresso, il protagonista che altro non è che Giuseppe Grassonelli, spietato killer della Stidda, entrato in carcere nel 1992, quando aveva solo 27 anni da perfetto analfabeta e sepolto dagli ergastoli e che oggi è un dottore in lettere e filosofia con una laurea conseguita con 110 e lode. Grassonelli ha deciso di raccontare la sua storia al giornalista Carmelo Sardo. Due destini incrociati se vogliamo perché Giuseppe Grassonelli, che da giovane è sfuggito a quattro agguati prima di dare vita alla sanguinosa vendetta che lo ha portato ad ammazzare i mafiosi di Cosa nostra che a loro volta avevano sterminato la sua famiglia, si informava proprio con i servizi di Sardo in una tv locale agrigentina per capire qual era la reazione della cosca avversa. Lo chiama il «mio agente segreto». Per portare a termine la sua vendetta togliendo la vita ai suoi nemici ha di fatto rinunciato alla sua stessa vita, agli amori, ai figli, agli affetti, alla famiglia. Giuseppe Grassonelli, è un ergastolano ostativo e cioè che non ha diritto ad alcun permesso e sa perfettamente che morirà in carcere. In questi 22 anni è uscito dal carcere solo una volta e per poche ore per incontrare sua madre tre giorni dopo il funerale del padre. E’ un uomo cambiato – forse persino rieducato – che ha però rifiutato di accedere, all’epoca del suo arresto, a qualunque proposta di collaborazione con la Giustizia («Non mi fidavo dello Stato, oggi sì»). E’ stato preso perché tradito dai suoi «amici». La narrazione della sua vita è potente e allo stesso tempo avvincente. E nel lettore c’è una sorta di – chiamiamola così – Sindrome di Stoccolma letteraria che ti porta ad amare o comunque a provare sentimenti positivi per uno che, comunque, resta pur sempre un sanguinario assassino. Ma il suo racconto lucido dà un perché – dal suo punto di vista, ovviamente sbagliato – alla furia che lo ha convinto ad impugnare kalashinikov e pistole 357 magnum per ammazzare i nemici della sua famiglia. E non si può prescindere da una data precisa: il 21 settembre del 1986 quando i sicari di Cosa nostra fecero fuoco contro i Grassonelli seduti in un bar di Porto Empedocle. Muoiono due suoi zii, un cugino, un paio di innocenti e il suo adorato nonno. Il killer insegue anche lui e gli spara. Lui ferito scappa tra i vicoli lungo la via Roma, il corso dello struscio di Porto Empedocle, si nasconde tra le auto e si salva. Non sa perché qualcuno abbia sparato ai suoi cari. Qualcuno solo dopo glielo spiega. E allora intanto fugge in Germania e per anni prepara la sua vendetta che darà vita ad una delle stagioni più sanguinose della storia della Sicilia e che nel periodo a cavallo tra gli anni Ottanta e gli anni Novanta vide centinaia e centinaia di morti tra mafiosi tradizionali e i cosidetti stiddari, le schegge impazzite che volevano soppiantare i vecchi boss di Cosa nostra. Giuseppe Grassonelli riuscirà a compiere la sua vendetta che però gli costerà il fine pena mai e la rinuncia alla sua stessa vita pur di inseguire il folle disegno della vendetta. C’è tutto questo in «Malerba», «erba cattiva», il soprannome che Giuseppe Grassonelli aveva sin da ragazzino. Ed è la storia che lui, il killer stiddaro dalle mani intrise del sangue dei nemici della sua famiglia, ha raccontato a Carmelo Sardo, oggi giornalista del Tg5, ma allora cronista di nera che raccontava i delitti della guerra di mafia e i cui servizi erano seguiti dal killer Giuseppe Grassonelli colmo di soddisfazione perché la vendetta giorno dopo giorno si compiva. Quello che esce dalle pagine di «Malerba» è un Grassonelli non pentito ma consapevole di avere sbagliato e di avere buttato via la sua vita e quella di decine di altre persone. Un racconto potente e avvincente che spiega come un normale «malerba» possa crescere in una guerra di mafia, veder morire chi ama fino a dover scegliere da che parte stare. Quella sbagliata.