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“Il Cavaliere Pedagna”, applausi e risate

Di Sergio Sciacca |

La vicenda narra di un possidente di provincia che si innamora delle sciantose di passaggio: inflessibile con la figlia colpevole di fuitina e accecato da passioncelle senili. Lo stesso Capuana faceva parte della categoria: mandò all’orfanotrofio i figli nati da relazioni ancillari sposandosi solo in limine mortis con la giovane “segretaria”. Il merito di questa messinscena è quello di sollevare la creazione teatrale dal piano delle opere dilettose e ridanciane a quello di analisi delle ipocrisie umane, senza perdere quel piacere della iperbole comica che è esilarante nell’aspetto ma efficace nella morale.

Protagonista è Miko Magistro nel ruolo del titolo, che sa scolpire con umanità palpitante che giunge alla comicità nel confronto con la grazia birichina di Evelyn Famà (nel ruolo della soubrette): scenette deliziose, spunti maliziosi pur tra i vestimenti talari della Belle Epoque che tuttavia non mancavano di seduzioni irresistibili. Tuccio Musumeci, nei panni del notaro raffigura il buonsenso comune, scatenando l’ironia del contrasto con le pretese erotiche del Ganimede anzianotto. Nel mezzo c’è una Guia Jelo sanguigna, dal carattere petulante e dalla saggezza profonda: che esorbita dal ruolo della camarera e vi rientra pirandellianamente perché mette assieme la farsa inventata e la tragica stupidità di quanti credono con un pugno di dollari, di comprare l’amore, o l’eterna giovinezza. Giustamente la regia ha sostituito alcune battute testuali con altre più briose, i personaggi veristi (come i mafiosi dell’epoca) con macchiette che ne dimostrano tutta la meschinità (Riccardo Maria Tarci disegna un quadretto di buon gusto). Turi Giordano è umanissimo nella caricatura del prete alla don Abbondio; Maria Rita Sgarlato sa sostenere con temperamento sentimentale finissimo il ruolo della figlia che dopo la colpa rientra in famiglia per assicurare un futuro ai figli: i quali sono resi dai piccoli Cristian Cozzo e Guia Buccheri con toccante spontaneità.

Lo spettacolo a oltre un secolo dalla sua creazione è divertentissimo di gag e quiproquo: ma va ben oltre la finzione scenica. Ogni stagione della vita ha le sue caratteristiche; gli amoretti quando si è nonni sono ridicoli. E questo spettacolo, vivamente applaudito alla prima, giovedì sera al Teatro Brancati, di cui chiude la stagione di successi, dimostra che le ragioni dell’arte scenica, a differenza di quella consegnata agli scritti, sono in continuo divenire: che non è tradimento testuale, ma intelligenza espressiva.

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