I primi 60 anni di Giuseppe Tornatore il creatore del mito del Nuovo Paradiso
I primi 60 anni di Giuseppe Tornatore il creatore del mito del Nuovo Paradiso
Il regista di Bagheria è ormai considerato di diritto tra i "senatori" del grande schermo
Il 27 maggio compie gli anni Giuseppe Tornatore da Bagheria. Chi conosce il rigore, il metodo, la passione intellettuale del regista premio Oscar di «Nuovo cinema Paradiso» sa che questo anniversario non lo coglie impreparato e forse gli dà più piacere che angoscia.
E’ in fondo la prova che ormai sta di diritto tra i grandi, i «senatori» del cinema italiano e che le sue opere scandiscono una stagione della nostra cultura. Del resto, se si guarda allo specchio, ritrova lo stesso sguardo intenso, il fondo ironico e distaccato del siciliano colto che lo caratterizzava anche da giovanissimo, quando seduce Goffredo Lombardo, il tycoon della Titanus che lo accompagna all’esordio con «Il camorrista» (1986).
E’ il debutto di un uomo di cinema oramai adulto: figlio di un sindacalista della CGIL, studente modello, regista teatrale da adolescente e poi dietro la macchina da presa per una serie di documentari, attivista politico nel PCI, trova anche i soldi per sostenere la produzione di Giuseppe Ferrara «Cento giorni a Palermo» e si guadagna così i gradi per firmare la seconda unità del film come regista.
A fargli da mentore è un maestro come Francesco Rosi che filma in una conversazione senza tabù e a cui poi dedicherà un bellissimo libro-intervista nel solco dei grandi dialoghi scritti tra registi. Il buon successo del «Camorrista» in cui tiene a bada un attore navigato come Ben Gazzara costringendolo in una misurata e intensa interpretazione che riecheggia i veri tratti del boss Raffaele Cutolo, apre a Tornatore la porta principale della produzione.
Sarà Franco Cristaldi a scommettere su di lui per il progetto (intensamente autobiografico) di “Nuovo cinema Paradiso» che saprà difendere e pilotare attraverso una rocambolesca storia commerciale fino al successo assoluto, al premio della giuria a Cannes nel 1989 e all’Oscar per il migliore film straniero del 1990. I film successivi sono tutti attesi come altrettanti eventi: dalla collaborazione con Marcello Mastroianni in «Stanno tutti bene» (1990) al surreale e segreto «Una pura formalità» (1994) con Depardieu e Polanski, dal premiato «L’uomo delle stelle” (1995) con Sergio Castellitto al’acclamato «La leggenda del pianista sull’oceano» con Tim Roth dal romanzo di Alessandro Baricco diretto nel 1998).
Da allora la sua carriera sembra divisa in due: da un lato la nostalgia per la Sicilia con opere quasi pittoriche come “Malena» (con Monica Bellucci nel 2000), «Baaria» (con cui tiene a battesimo Ficarra&Picone nel 2009) o il memorabile documentario «Il cappello a tre punte» (1995) tutto consacrato al cinema della sua terra; dall’altro teoremi intellettuali di grande suggestione come «La sconosciuta» (2006) o i recenti «la migliore offerta» e «La corrispondenza». In mezzo due tributi pagati (il libro per Francesco Rosi e lo smagliante documentario “L’ultimo gattopardo» su Goffredo Lombardo), un po’ di celebrazioni pubbliche (tra cui una laurea honoris causa) e perfino un segno personale nelle campagne pubblicitarie che ha accettato di firmare.
Il meno che si possa dire di lui è che non è solo un regista tecnicamente «bigger than life» rispetto agli standard del cinema italiano, a metà fra il maestro Rosi e Sergio Leone di cui ha a lungo caldeggiato il progetto incompiuto «La battaglia di Leningrado». Quello che invece si dice meno spesso è che si tratta di una delle personalità più riflessive del nostro panorama autorale. Da sempre ama pensare al senso del cinema che guarda o che realizza, con una passione cinefila che spazia dalla ricerca d’autore all’affresco di respiro internazionale che sempre più spesso lo spinge lontano dai nostri confini. Non a caso, tra Giappone e Cina il suo prossimo periodo creativo sembra andare sulle stesse tracce di un «fratello maggiore» come Bernardo Bertolucci che proprio nella Città Proibita trovò il suo coronamento di gloria internazionale.
Personalità schiva, sempre protetto dietro una montatura da occhiali da professore di liceo, gentile nei modi e sommesso nella parola, Giuseppe «Peppuccio» Tornatore resta – suo malgrado – una figura anomala del cinema italiano; sembra talvolta ispirarsi alla saggezza disincantata del Principe di Salina del «Gattopardo» e talaltra ritrovare la passione e il calore del sindacalista che ha visto nel padre amatissimo. Ha sempre fatto un cinema molto lontano da quello di Francesco Rosi ma per nessun altro autore ha professato altrettanta venerazione; è stato generoso coi suoi conterranei (i primi passi nella regia di Roberto Andò si devono a lui) e coltiva come un fiore prezioso la memoria culturale e la curiosità intellettuale. Anche per questo i 60 anni sono per lui – c’è da sperarlo – un traguardo e un trampolino: da adesso in avanti può regalarsi quel distacco sereno che solo la maturità sa restituire.COPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA