C’è tutto il cuore di Giuseppe Fiorello in questo spettacolo. Tutta la sua anima, la sua storia, la sua Sicilia. Perché Penso che un sogno così… è un grande omaggio al suo papà, «che voleva fare l’artista e non c’è riuscito», in un racconto cucito dalle canzoni di Domenico Modugno, ma è anche la storia di Giuseppe da bimbo che ascolta la musica con il padre, «un papà speciale, non un supereroe, ma ci ha lasciato la libertà di sognare a discapito magari di qualche percorso che avremmo “dovuto” fare, come continuare gli studi», e quella della sua famiglia. Ma in questa sorta di autobiografia dell’attore, «e spiegherò in scena com’è che lo sono diventato», si ritrovano anche gli spettatori, pure loro bambini nell’ottimismo dell’Italia del boom economico che allarga le braccia al mondo con entusiasmo proprio come Modugno in Volare.
«L’idea dello spettacolo era dentro di me da molto tempo, volevo raccontare mio padre, parlare della Sicilia, dei ricordi», racconta Fiorello, protagonista con la sua intensità e la faccia perbene di una lunga sfilza di fiction di successo, che dall’anno scorso riempie i teatri da Nord a Sud con Penso che un sogno così…, scritto con Vittorio Moroni, regia di Giampiero Solari, ora dal 7 all’11 al Teatro V. Emanuele di Messina. Ha già portato in tv la storia di Modugno, fiction record con oltre dieci milioni di spettatori e oggi intreccia la storia dell’artista con la sua e con quella di suo padre Nicola.
«Ho sempre avuto il desiderio, il sogno, di raccontare mio padre, un pezzo della mia vita, le mie esperienze di bambino, di ragazzo – riprende – non perché avessi una storia speciale ma perché avevo l’esigenza di tirare fuori molto di me e darmi al pubblico, senza nascondermi, restituendogli quello che mi ha dato in questi anni. Dopo la fiction su Modugno ho pensato che potevo cucire tutto attraverso le sue musiche. Mio padre ci ha cresciuto, ci ha nutriti con le canzoni di Modugno, era un suo ammiratore, lo cantava spesso e poi il destino ha voluto poi che fossi io a interpretare il suo ruolo nella fiction. Così nello spettacolo incrocio questi destini, queste casualità della vita: un gioco di specchi tra Modugno, mio padre e me».
Non è uno spettacolo «intimista», precisa, «anche se potrebbe essere da “psicanalista”, perché mi hanno detto che sembra una seduta di terapia», scherza, «ma racconto anche un pezzo d’Italia, molta Sicilia di quegli anni 70-80: la voglia di progresso, l’industrializzazione della nostra terra, il prezzo che abbiamo pagato per le fabbriche, per il Petrolchimico del mio paese. E’ il racconto di un’epoca. Ogni canzone di Modugno è perfettamente incollata su ogni tema che cavalco durante lo spettacolo, è una scelta narrativa perché lui ha cantato tutto: lavoratori, minatori, animali, vita, amore».
Lo spettacolo è un parallelismo tra papà Nicola e Modugno. «La storia di due ragazzi che avevano un sogno, Modugno l‘ha realizzato andando via dal paese, mio padre non è partito, ha messo su famiglia, si è arruolato nella Guardia di finanza. Ma i due avevano qualcosa in comune, si somigliavano pure. Mio padre cantava per diletto, aveva una passione pazzesca per la musica, Modugno in particolare, e per un repertorio di musiche siciliane che propongo nello spettacolo. Mi diverto a fare una battuta: se mio padre fosse partito per andare a Roma, forse sarebbe stato lui il vero Modugno, non c’era bisogno di far diventare un pugliese siciliano, perché Modugno ha amato profondamente la Sicilia e l’ha raccontata come pochi attraverso certe sue canzoni».
In questo viaggio, questo «gioco di specchi», Fiorello propone una colonna sonora che scandisce la sua vita, una quindicina di brani, «alcuni sono accennati all’interno di una narrazione, altri sono cantati per intero», come Tu si na cosa grande, Resta cu me, Meraviglioso, fino a «quelli meno noti e che ho amato di più, Cavaddu ciecu de la miniera, Lu minaturi, Lu pisci spada, e quello che reputo un capolavoro, Cosa sono le nuvole, scritta con Pasolini».
Tra quelle più curiose pesca La cicoria, «una canzone divertente che si sposava con il ricordo che avevo da ragazzino delle grandi riunioni di famiglia, tavolate dove si mangiava e si beveva per ore, si cantava, si cantavano barzellette, si scherzava. Tra le portate c’era spesso la cicoria per mano di una mia zia che la spadellava da matina a sira».
Il racconto di una vita e di un’epoca che lasciano la memoria di un’Italia migliore, «ma non è nostalgico, non dico si stava meglio prima – sottolinea – c’è molta commedia, è un percorso divertente, emozionante e anche commovente. Molti spettatori mi dicono che nella mia vita rivedono la loro e sono fiero di questo».
Oltre che in teatro il sorriso timido di Giuseppe Fiorello, beniamino del pubblico televisivo, tornerà ancora una volta in una fiction. «Ogni anno c’è quasi un appuntamento fisso, ormai racconto una storia». Quest’anno si intitola L’angelo di Sarajevo in onda il 19 e 20 su Rai1, «liberamente ispirata al libro di Franco Di Mare, Non chiedere perché».
Tantissima tv, mentre il cinema l’ha un po’ trascurato. «Amo profondamente la tv alla quale devo veramente tutto, mi piace arrivare a un pubblico così vasto. Il cinema lo amo come tutti gli attori, è il sogno più grande, ma l’ho frequentato molto poco». Sul grande schermo lo vedremo nei panni di Borsellino, mentre Massimo Popolizio sarà Falcone, nel film di Fiorella Infascelli – prodotto dalla Fandango di Procacci – che racconta i 25 giorni trascorsi dai due giudici all’Asinara nell’86. «Un film solo su quel pezzetto della loro vita che li renderà ancora più unici, 25 giorni straordinari e assurdi che passarono su quell’isola. Credo molto in questo film, è bellissimo: vedremo Falcone e Borsellino non a Palermo ma in una vacanza forzata e particolare, lontani da ansie e paure e con un orizzonte davanti ai loro occhi senza 12 persone di scorta intorno. Un omaggio intenso e intimo».
Anche un ruolo che è una grande sfida. «Quando me lo proposero ho avuto paura, come ho sempre paura quando si tratta di personaggi così alti, come per Modugno – racconta – spero di avercela fatta perché è stata una gioia immensa poter dare voce, volto e vita a Borsellino».
Tutti e tre fratelli artisti, un sogno che vi accomuna? «Ognuno di noi ha avuto un sogno, non posso parlare per i miei fratelli, e non posso dire per me “avevo un sogno e l’ho raggiunto”. Il lavoro non era un sogno preciso, non sapevo nemmeno cosa volessi fare da grande. Ho dovuto mettere in scena questa cosa per spiegare cosa sono diventato».
In Sicilia torna spesso soprattutto d’estate. «Io sono siciliano, sono un pezzo dell’isola, la sicilianità sono le persone, i miei amici. Amo la Sicilia, ma qualche volta ho provato rabbia perché è stata accondiscendente con cose e persone che hanno distrutto la nostra terra, ha accettato compromessi, si è voltata spesso dall’altra parte, si è rassegnata. Non ho amato il sistema civile della Sicilia. Le cose sono molto cambiate negli ultimi vent’anni, sono migliorate, c’è un’altra coscienza. Bisogna riascoltare alcune cose che diceva Pippo Fava, una figura su cui ho un progetto in mente da anni. Tutte le storie che faccio sono per far ispirare e per ispirarmi non per celebrare questi uomini che vanno celebrati in vita. Perché di quelle morti, Falcone, Borsellino, Fava, Impastato, De Mauro, Graziella Campagna, Beppe Alfano, e tanti altri ne potrei elencare, siamo tutti un po’ responsabili, tutti noi siciliani non abbiamo saputo proteggere quegli uomini e quelle donne, tutti abbiamo un briciolo di responsabilità».