ROMA – «Non era questa la notizia che avremmo voluto e dovuto leggere». Un singolo messaggio, carico di amarezza. Si apre così la pagina Facebook “Vogliamo Giovanni Lo Porto libero”, lo spazio virtuale che più di ogni altro in questi anni ha lottato per mantenere vivo il ricordo dell’ex ragazzo di Palermo partito per il mondo con il sogno grande di migliorarlo. E poi giù messaggi di cordoglio, voci sparse di chi lo ha conosciuto, in Asia o in Europa, sul campo, a spalare fango tra gente che mai aveva visto prima, o sui banchi di scuola, mentre progettava il suo futuro. In sintesi: Giovanni era una persona speciale. «Nei confronti degli amici è di una lealtà incredibile e lo dimostra in molti modi, grandi e piccoli: su di lui ci puoi sempre contare». Sarah Neal è un’ex compagna di università di Giovanni, insieme hanno frequentato il corso di studi dedicato ai «conflitti e i processi di pac»” della London Metropolitan University.
Nel 2010 arriva la laurea. «Giovanni – racconta al Guardian – è arrivato in ateneo il giorno in cui avremmo dovuto consegnare le tesi solo e unicamente per aiutare gli altri compagni: lui la sua l’aveva chiusa il giorno prima. Così ha riletto gli elaborati, ha proposto correzioni, ha aiutato a rilegarli fino alla scadenza dei termini».
Gli amici di Londra sono stati tra i primi a rompere la “comanda del silenzio” che la diplomazia in questi casi impone ai congiunti e a chiedere alle autorità «di fare di più» per Giovanni, non dimenticarlo. Mike Newman, suo professori all’università, lo ricorda come uno studente «appassionato, amichevole, dalla mente aperta». «Mi disse: “Sono contento di essere tornato in Asia e in Pakistan, amo la gente, la cultura e il cibo di questa parte del mondo”». Perché il Pakistan «era il suo vero amore e sentiva di aver operato bene, stabilendo dei buoni rapporti con la popolazione».
Dopo la laurea Giovanni fa di nuovo la valigia e si reca nella Repubblica Centroafricana e ad Haiti, sempre per dei progetti di cooperazione, e quindi in Pakistan. Dove incontra Andrea Parisi. «Allora lavoravamo entrambi per Cesvi», racconta al sito Redattoresociale. «Ero arrivato a Multan da pochi giorni. Giovanni mi ha lasciato le consegne, dovevo chiudere il suo progetto. Era felice di andarsene, aveva affrontato la fase più dura dell’emergenza. Mi disse che aveva in programma un viaggio in solitaria intorno al mondo: voleva prendersi una pausa lunga, allontanarsi per un po’ dal mondo della cooperazione».
Ma non è andata così. Giovanni non ce l’ha fatta a “staccare la spina” e a fine 2012 è di nuovo in Pakistan, di nuovo a Multan. E c’è anche Parisi. Che la notte del rapimento di Giovanni e Bernd Muehlenbeck dal compound della ong tedesca Welthungerhilfe riceve una telefonata da un collega locale. «Non era mai successo niente prima, e non è successo più nulla dopo», dice Parisi.
Un destino infame quello che s’è portato via Giovanni Lo Porto. Il suo compagno di prigionia infatti ce l’ha fatta, liberato da un blitz delle teste di cuoio tedesche. Ma lui non c’era già più. Ora i suoi colleghi della Welthungerhilfe si dicono “distrutti” e aspettano “di saperne di più”. Come se i dettagli potessero aiutare a soffrire meno, dopo tutti quegli anni passati a sperare.