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Giovani, la fuga dalla Sicilia e l’eroismo di chi resta
Dalla fantascienza alla cronaca, da “1997 Fuga da New York” a “2019 Fuga dalla Sicilia”. Con una differenza: che il film di John Carpenter ha avuto isolati e comunque poco fortunati sequel, mentre l’indagine Svimez che certifica lo svuotamento dell’intero Mezzogiorno è seriale, una soap opera sulla questione meridionale le cui puntate vanno avanti, praticamente da sempre.
Così, di fronte alle statistiche puntuali e purtroppo sempre uguali, costanti negli indici negativi, oggi si reagisce con un ossimoro comportamentale: una serena rassegnazione, la “non-crescita felice”, per mutuare il concetto rilanciato al nostro tempo, tra gli altri, dall’economista e filosofo francese Serge Latouche.
Rassegnazione. È il sentimento che accompagna i genitori di fronte a figli che partono, per studiare o trovare una occupazione, fosse pure instabile. È la resa di fronte a un quadro che non muta se non nella cornice di provvedimenti tampone che non leniscono le ferite delle crisi. È un’altra generazione bruciata, a ben pensarci. Quella di 40/50enni che si aprono al mondo un po’ perché è giusto che sia così nell’era della globalizzazione e della circolazione delle idee, un po’, anzi molto, perché è necessario farlo, perché qui, nel recinto più o meno ampio di casa, la possibilità di crescita è residuale, tanto marginale da fare staccare, a chi parte, biglietti di sola andata. Accade nella maggioranza dei casi e quindi sono competenze, conoscenze, capacità, voglia di fare e porzioni di futuro regalate ad altri. Per sempre. Considerando pure che vanno via sì i più ambiziosi e i più bravi, ma soprattutto vanno via semplicemente i più fortunati, i più ricchi per farla breve. E che quindi l’ascensore sociale resta pericolosamente fermo ai piani bassi.
Ancora. Come detto più volte, oggi non si parte per fare i camerieri ma gli ingegneri, si resta per fare i camerieri e non gli ingegneri. E dunque: può bastarci essere damerini e hostess, con tutto il rispetto per damerini e hostess, di top manager, divi, stilisti e starlette che qui vengono a trascorrere una o due serate in mezzo a ciò che ci ha lasciato la Storia in cambio di una mancia a chi amministra il territorio? Può essere questa una visione di futuro? Bah.
C’è poi un altro fattore di rischio, nascosto, subdolo e per questo estremamente pericoloso: che ciò che resta della classe imprenditoriale (davvero poco) approfitti – con virgolette o meno fate voi – della stagnazione non per mettere a posto i conti, cosa buona e giusta, ma per massimizzare i profitti e ridurre il rischio d’impresa, disinvestendo, dismettendo, arroccandosi. Troppo facile, l’impresa è tale nella parola stessa: bisogna intraprendere, altrimenti si è meri contabili.
Per questo oggi il solo fatto di non andare via è visto come un atto d’eroismo: “Non studi fuori? E come mai?”, si sentono ripetere gli universitari che non scappano, neanche dagli scandali. E un’azienda che resiste, un’impresa che ci crede, come pure una redazione, sono trincee. No, non è normale. Ce ne rendiamo conto? Se ne rendono conto coloro i quali abbiamo mandato a governare restituendoci il palliativo di un sussidio e la certezza di una società incattivita dall’odio? Non sempre tutto capita per colpa di altri.
Nel 2065 ci hanno spiegato che la Sicilia avrà un abbondante milione in meno di abitanti, cifra cui va aggiunto il numero di coloro che lasciano l’entroterra per cercare un improbabile eldorado nelle grandi città. Trentacinque anni ancora e per semplici ragioni anagrafiche quest’orizzonte riguarderà chi oggi è tra i banchi di scuola o sui libri. Eppure l’urgenza è adesso. E riguarda tutti: giovani, diversamente giovani, quasi anziani e ormai anziani.COPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA