Nino Arena «No, la Sicilia non è rimasta ferma ad Archimede, è un luogo conosciuto nel mondo della scienza, ha università vivaci che devono imparare sempre più a fare lavoro sinergico e adesso è in prima linea nella ricerca dei neutrini». Fernando Ferroni, presidente nazionale dell’Istituto di Fisica nucleare è abituato a esaminare il bicchiere mezzo pieno. La ricerca, del resto, è fiducia nel futuro e si nutre dell’infinita ambizione di riempire l’altra metà del bicchiere… della conoscenza. Lo abbiamo incontrato a margine di due intensi giorni catanesi, trascorsi insieme ai 369 delegati delle 25 strutture dell’Istituto nazionale di Fisica nucleare, dedicati al confronto sul piano triennale dell’istituto che guida e che a Catania ha una delle sedi più prestigiose, arricchita dai Laboratori nazionali del Sud.
Professor Ferroni, quali sono i punti chiave del Piano triennale dell’Infn?
«Mantenere la nostra tradizione scientifica, la posizione di leadership all’Lhc del Cern di Ginevra e sviluppare la fisica delle astroparticelle, quella che guarda i fenomeni che vengono dal cosmo, dove abbiamo esperimenti sulla materia oscura, esperimenti importanti sui decadimenti da studiare per scoprire la natura del neutrino: vorremmo provare che Majorana aveva ragione, mettiamola così. E poi abbiamo l’osservazione del cielo, di tutto quello che ci cade addosso, in cui la Sicilia ha un ruolo preminente grazie all’osservatorio al largo di Portopalo, dove facciamo un esperimento estremamente importante che vuole rilevare i neutrini che vengono dalle profondità del cosmo e ci possono portare delle informazioni importanti sulle sorgenti».
Quali novità, rispetto a questo quadro, possono venire dal programma europeo “Horizon 2020”?
«È un’opportunità di coniugare principalmente la nostra capacità di sviluppare tecnologia e trasformarla, possibilmente con partnership industriali, in innovazione: c’è questo passaggio per niente banale che l’Ue cerca di favorire, per trasformare la tecnologia per la scienza di base in innovazione industriale».
Esiste un gap Nord-Sud nel campo della ricerca?
«Non riguarda l’Infn, forte di 25 realtà tra cui quattro laboratori nazionali, uno dei quali a Catania e noi non osserviamo nessuna prevalenza. Semmai è un problema di cultura, di formazione. L’Infn è un ente nazionale, la metodologia che sui usa a Catania non è diversa da quella di Padova. La scienza unifica tutto».
I tagli costanti alla ricerca che incidenza hanno sul vostro lavoro?
«Penso che il sistema di ricerca italiano non sia perfetto, che quindi non meriti solo premi, però meriterebbe un’analisi attenta, in cui le risorse vengano attribuite con attenzione. Oggi i finanziamenti vengono dati in base a un’esperienza storica applicando dei tagli lineari. Credo, invece, che in un momento di difficoltà, la situazione si deve esaminare esattamente per giudicare chi è più meritevole, quindi il problema vero è quello del taglio che colpisce buoni e cattivi allo stesso modo».
Le Regioni che ruolo svolgono nel campo della ricerca?
«Sono il nuovo capitale sociale, ormai protagoniste e quelle del Sud hanno un vantaggio rispetto alle altre, poiché possono usufruire dei fondi strutturali di convergenza. Ma devono imparare a usarli per il meglio e trasformare le alleanze pubblico-privato in un’occasione di innovazione, nutrendo il pubblico che fa scienza di base, ma poi produce ritorni sotto forma di innovazioni».
E la Sicilia?
«Ha questo grande patrimonio che sono i Laboratori nazionali del Sud, peraltro ha un centro di eccellenza riconosciuto nel mondo come centro di formazione a Erice. È importantissimo, ci stiamo investendo e con l’aiuto della Regione potremmo certamente aumentare il peso del nostro impegno».
C’è un’esigenza specifica da fare presente alla Regione?
«Sì: che nei prossimi programmi operativi nazionali, con fondi di fatto regionali, la Sicilia – che già ha ammesso per esempio il progetto di Portopalo – mantenga questo impegno e ci aiuti a portarlo avanti, questo potrebbe farci rafforzare la fisica che si fa all’interno dei Lnd. Catania ha anche un tessuto industriale, quindi è interesse di tutti mantenere le competenze perché queste strutture industriali beneficiano delle ricadute della ricerca».
La nuova frontiera è l’Estremo Oriente…
«Ha capito il messaggio dei Paesi cosiddetti sviluppati, dove la scienza di base ha prodotto la trasformazione tecnologica del Paese. In primis la Cina, che ci ha dato contratti di ricerca per la costruzione di un satellite che sarà lanciato a giorni dal deserto del Gobi. Anche altri stanno investendo sulla ricerca di base e noi… noi siamo contenti: loro investono e noi siamo pronti a cogliere le opportunità».
Esiste l’Europa unita della ricerca?
«Per carità: i Paesi collaborano quando gli fa comodo, si fanno la guerra quando gli fa comodo. L’Europa unita della ricerca esiste sotto forma di finanziamenti fatti dall’Unione Europea specie per programmi di sviluppo con l’industria. C’è l’ottimo programma per fare ricerca indipendente, ma non è che questo unisce o disunisce, premia il singolo ricercatore. L’Europa ha una difficoltà a costruire infrastrutture comuni di ricerca, le fa ma con molta difficoltà».
Oggi un buon ricercatore deve essere anche un buon comunicatore?
«Beh sì, sennò non ci danno i soldi. Detto questo non credo che esista un mestiere che sia astratto, slegato dalla società. Il ricercatore deve saper raccontare quello che fa, se tu non fai capire quello che stai facendo, perché lo stai facendo e quale sarà la ricaduta sulla società, non stai facendo il tuo lavoro punto e basta. Questo è il problema, altrimenti torniamo ai cappelli a punta e ai maghi, ma non credo che sia questo il mestiere del ricercatore».