Chi ha detto che i vitigni di successo sull’Etna debbano essere solo Nerello Mascalese e Carricante? Il patrimonio di uve autoctone è molto più ricco di quello che conosciamo. Lo testimonia una ricerca del Di3A (il Dipartimento di Agricoltura, Alimentazione e Ambiente dell’Università di Catania) che ha individuato una quindicina di “vitigni reliquie”, analizzandone le caratteristiche, la morfologia, le diverse varietà, il patrimonio genetico. Lo studio, avviato da Antonio Cicala, ricercatore del Di3A che si è occupato anche di vecchie tecniche colturali, è firmato da Elisabetta Nicolosi, Stefano La Malfa, Alessandra Gentile (docenti del Di3A) e da Filippo Ferlito, ricercatore del Crea (Consiglio per la ricerca in agricoltura e l’analisi dell’economia agraria, di Acireale).
«Quando negli anni Duemila – ricorda Elisabetta Nicolosi – il nostro dipartimento iniziò a caratterizzare il germoplasma frutticolo del territorio etneo, nell’andare in giro per catalogare le diverse varietà di frutta, attraverso le interviste agli agricoltori locali, ci imbattevamo in piante di vite “diverse” in mezzo ai vigneti delle quali i viticoltori ci raccontavano le particolarità. Abbiamo poi confrontato queste notizie con la letteratura esistente, che è abbastanza vasta e testimonia i vitigni presenti nel nostro territorio chiamati con tantissimi nomi diversi».
«Nel Vertunno Etneo (un testo dell’Ottocento dell’abate Geremia dove sono descritte le varietà delle uve coltivate sull’Etna ndr) vengono citati oltre 50 vitigni “minori” – dice Filippo Ferlito – oltre quelli già conosciuti, presenti da tempo immemore sull’Etna. Per questa ricerca ci siamo interfacciati con una popolazione di vecchi agricoltori che oggi, forse, non esiste più. Dal 2001 al 2005 abbiamo “segnato” le piante, al momento giusto siamo andati a prelevare il materiale che abbiamo messo a dimora in un nostro campo sperimentale, poi abbiamo replicato l’operazione su un altro campo sperimentale sull’Etna (a Nicolosi, dove sono stati piantati altri vitigni reliquie di tutta la Regione ndr), e una volta che queste piante sono andate in produzione abbiamo eseguito altri tre-quattro anni di rilievi ampelografici».
Perché “reliquie”?
«Perché le piante sono davvero poche numericamente, appartenenti a 15-20 vitigni».
Ma potrebbero avere uno futuro importante da un punto di vista enologico?
«Intendiamoci – chiarisce la prof. Nicolosi – da un punto di vista produttivo non potranno avere lo sviluppo degli altri più diffusi, nel senso che non hanno delle caratteristiche tali da essere vinificati in purezza. Utilizzati, però, in un uvaggio, il discorso potrebbe essere interessante se non altro per il fatto che sempre di più dalle nostre parti c’è un ritorno al prodotto di nicchia legato strettamente all’identità del territorio e sul vino dell’Etna, in questo momento, c’è un boom. Questi vitigni antichi potrebbero, per la loro storia, alcuni si pensa addirittura pre-fillossera, dare sicuramente quel qualcosa di più attrattivo per l’enoturismo che sta andando alla grande».
Altrimenti tutto verrebbe relegato in una sorta di studio di archeo-agricoltura…
«Non è solo un discorso da museo anche perché la coltivazione di questi vitigni dovrebbe comunque passare dall’iscrizione di alcuni di questi nel registro nazionale delle varietà. Affinchè un vitigno possa essere coltivato è necessario, infatti, che venga “autorizzato” ed è nostra intenzione iscriverli. In maniera non ufficiale molti viticoltori, magari ex nostri studenti, ce li hanno chiesti per impiantarli».
Però se nessuno li ha più coltivati un motivo ci sarà?
«Perchè fino alla metà degli Anni Novanta – risponde Ferlito – si è preferita la quantità alla qualità. Queste varietà non erano molto produttive, non avevano lo stesso periodo di maturazione del Nerello Mascalese, non erano molto carichi di colore e quindi venivano man mano abbandonati. Oggi che i gusti sono cambiati e i vini un po’ scarichi di colore hanno un mercato, le prospettive sono diverse. Poi i motivi per cui sono stati abbandonati possono essere vari. La Vispara, per esempio, non ha avuto successo, perché era una varietà molto precoce, se il contadino non interveniva raccongliendola per il consumo della famiglia, se la mangiavano le api. Una volta le famiglie vivevano con quello che producevano, il Nerello Mascalese serviva per il vino, altre uve con particolari gusti e dagli acini più grossi come la Minnella o il Barbarossa avevano una duplice attitudine anche come uva da tavola».
A parte la produzione di vino, quale può essere il ruolo di questi vitigni?
«Se queste varietà hanno resistito fino ad oggi – argomenta la prof. Nicolosi – le informazioni sul loro patrimonio genetico possono essere molto utili. Un esempio è il Terribbile (con due “b” ndr), chiamato così non a caso perché ha dei geni molto resistenti. Il Terribbile ha un bel grappolo, fitto, compatto, produttivo; in un programma di miglioramento genetico potrebbe essere utilizzato tranquillamente. Moscatella nera e Moscatidduni li stiamo portando avanti da 8 anni per “trasferire” alcuni caratteri trovati in queste reliquie nell’uva da tavola. Tornando al Terribbile le analisi qualitative hanno rivelato un bell’equilibrio acidità-zuccheri con valori interessanti non abbiamo ancora fatto le microvinificazioni per vedere il loro comportamento». «I colleghi delle Soat – dice Ferlito hanno fatto delle prove vinificando tutte le varietà a bacca rossa insieme. È venuto fuori un vino dal sapore forte assomigliante al Nerello Mascalese».
Da parte dei vecchi coltivatori che tipo di accoglienza avete avuto?
«Grande collaborazione – afferma Ferlito – erano felicissimi. Purtroppo è un mondo che per motivi anagrafici sta scomparendo, ma loro hanno in mano non solo la cultura dei vitigni reliquia ma anche le vecchie tecniche di coltivazione. I “munzeddi” erano dei veri capolavori (le montagnette di terra attorno alle piante, una tecnica che si utilizzava in inverno per favorire la raccolta dell’acqua ndr), ma stanno scomparendo assieme ai loro inventori».
«E poi – interviene Nicolosi – bisogna considerare che i grandi investimenti sull’Etna sono stati anche possibili perché molti piccoli agricoltori che avevano anche meno di un ettaro di terreno hanno venduto. Oggi che un ettaro di terreno vitato sull’Etna costa 80mila euro, molti hanno venduto accorpando gli appezzamenti. Il piccolo coltivatore non esiste più. Sarebbe bello se questi grandi produttori che sono sbarcati sull’Etna destinassero anche mezzo ettaro alla coltivazione di questi vitigni antichi, per loro sarebbe sicuramente un valore aggiunto. Se anche arrivassero ad imbottigliare 2.000 bottiglie di un vino prodotto esclusivamente con i vitigni reliquia, sarebbe un bel risultato…».
Un po’ quello che accade con i grani antichi…
«Sì, anche se quello è un capitolo a parte. Si parla tanto di viticoltura eroica, di viticoltura di montagna. Oggi che sull’Etna ci sono, ed è un bene, grandi investimenti, continuare a coltivare la vite sulle colline terrazzate dove si può entrare solo con un piccolo ceppo (l’attrezzo per arare ndr) significa non solo tramandare un metodo ma anche “mantenere” un paesaggio unico. Il problema, infatti, non è solo il reperimento e la caratterizzazione dei vitigni dimenticati, ma il loro mantenimento perché sono varietà che necessitano di spazi e cure particolari. Devono aver un ruolo, altrimenti restano sui libri».