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Ecco tutti i vini siciliani a 5 stelle del Vinitaly
Nel gotha dei 300 (su 3.000 in gara entra chi ottiene più di 90 punti su 100) segnalati da “5StarWines The Book”, la guida che sarà distribuita ai boss del mondo del vino, occasione di promozione fra buyer e wine lover di tutto il mondo, grande performance dell’azienda Al-Cantàra con il bianco Etna doc “Luci Luci” 2014”, 92 punti, e due rossi Etna doc “Lu veru piaciri” 2014 e “O’ scuru O’scuru” 2014, 90 punti. «Felice? Di più. Galleggio a mezzo metro da terra» commenta con entusiasmo Pucci Giuffrida, noto e stimato commercialista catanese, patron dell’azienda di contrada Feudo S. Anastasia a Randazzo, nota per unire vino, arte e cultura, una decina di etichette (firmate da Alfredo Guglielmino, meravigliose e premiatissime) dai nomi pieni di sogni e poesia, che continua a conquistare successi nelle competizioni internazionali. «Non credevo che tre vini potessero essere selezionati – prosegue – L’Etna è piena di eccellenze, queste tre medaglie sono importanti». Il merito, aggiunge, «va alla squadra», l’enologo sicilianissimo e preparato, il fattore Giuseppe Puglisi e gli operai, il direttore commerciale Gianluca Calì che porta le bottiglie fino in Canada, Usa, Svezia, Norvegia, Giappone.
Salvatore Rizzuto, 38 anni, in cantina c’è nato, il nonno produceva vino, il padre era consigliere in un cantina sociale. La scintilla scatta dopo un corso a Marsala, poi l’università ad Alba, stage a Settesoli, un anno a Bordeaux, quindi le Langhe, ad Alba con Fontana Fredda, nell’Astigiano, moscato e nero d’Avola nella zona di Pachino, sull’Etna per Cottanera, e dal 2013 da Al-Qantàra. «L’Etna è un salto – racconta ora – all’inizio è stato difficile capire il nerello, poi ho ne ho scoperto le potenzialità, le caratteristiche incredibili, la longevità, l’affinamento anche di più di 10 anni. E mi sono innamorato pure del carricante, il gusto spigoloso dell’acidità dell’Etna chiede un enorme lavoro di sottrazione, a partire dal diradamento in vigna». Oltre alla magia del vulcano, il successo nasce da un terroir straordinario, che dona vini di grande eleganza, e dal nuovo gusto del consumatore. «Una volta andavano di moda i vini “piacioni”, merlot e cabernet, lo chardonnay bariccato con il sentore di mela o di ananas. Oggi ci si avvicina a vini più difficili. Il nero d’Avola? L’abbiamo bruciato noi siciliani, speriamo d’aver imparato la lezione. I produttori sull’Etna, insieme, dovrebbero far diventare il nostro nerello un vino di altissima qualità, come il pinot nero della Borgogna». L’azienda conta 15 ettari e 50 mila bottiglie, «l’obiettivo è raddoppiare», e in cantina «si lavora senza ossigeno, con una pressa di ultima generazione per evitare ossidazione».
L’altro enologo in famiglia, la moglie Irene Vaccaro, 34 anni – «nessuna guerra, quando è necessario ci confrontiamo», sorride al telefono – studi classici e amore per il mondo bucolico, dopo l’università ad Alba, la specialistica ad Asti, esperienze a Martini Rossi e Ceretto, ritorna a Palermo e poi approda da Vivera, azienda biologica sull’Etna, entrata nella guida a 5 stelle con un Etna rosso e un bianco. «Sono rimasta sul vulcano, mi sono innamorata di questo paesaggio e del vino. E’ un territorio unico per ricchezza, storia, eterogeneità. E’ affascinante, ogni colata lavica genera un tipo di suolo, ogni collina, ogni vallata è un’isola nell’isola». Diffidenza verso le donne enologo? «In Sicilia la rappresentanza femminile è alta. Nel vino c’è una componente femminile: sensibilità, delicatezza, equilibri, profumi che vengono fuori da un un calice». Il futuro? «Disciplinare doc rigoroso e fare squadra, più comunicazione tra i produttori», per continuare la corsa della Doc Etna.
Sulle varietà autoctone, nerello mascalese e carricante, punta da sempre Al-Cantàra. «Abbiamo subito voluto sottolineare l’importanza del territorio, il binomio qualità-identità e uno stile subito riconoscibile. Una lettura enologica coerente alla storia e alla cultura del territorio dell’Etna, un immane lavoro in un regime di bassa resa che però alla fine ci ha ricompensato – commenta ancora Giuffrida – l’enologia etnea resta legata a piccoli numeri. Così ci siamo attrezzati per produrre in piccolo ma per pensare in grande. E la grandezza di questi pensieri sono tutti rivolti verso l’unicità che questa terra declina ed esprime per mettere al centro dell’attenzione non il solo il vino ma le persone, l’azienda, i luoghi, la storia e tutto l’ambiente intorno».
Per Giuffrida, innamorato dell’Etna e del vino, il segreto è far convivere due anime. «La prima è legata al modo ancestrale di fare il vino, ovvero secondo le tradizioni dei nostri nonni, dei nostri padri, della storia e dell’identità che il territorio esprime rendendo inimitabili i nostri vini. La seconda si lega ai tempi moderni: oggi il consumatore non compra più beni e servizi, ma ha sempre più fame di relazioni, di storie, di magie». Così le sue bottiglie hanno un’anima siciliana, i nomi di opere di Martoglio, di Pirandello, di Micio Tempio, ma anche di contemporanei. «Per me era importante dare una forte connotazione territoriale e culturale al mio vino: letteratura, fotografia, arte regalano un’emozione in più. Il vino è una poesia da bere». Per questo sceglie il dialetto per i nomi dei suoi vini. «Il cui linguaggio non usa solo parole ma evoca paesaggi dotati di suggestive scenografie, di vedute incantevoli, di territori dalla pluralità di significati che intercalano spazi fisici a spazi virtuali. E dove l’uomo, con la sua cultura lascia sempre, come un’impronta digitale, il suo marchio. E in questo punto è appesa la chiave che aprirà a noi etnei molti successi».
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