La presenza dei musulmani in Europa e in Italia, dove sono circa 2 milioni, ci pone davanti alla difficile sfida di riuscire a coniugare uguaglianza dei diritti e riconoscimento delle diversità culturali considerate come un valore, un arricchimento. Una sfida tanto più complessa in rapporto ai diritti delle donne che nel mondo islamico, ma non solo, pagano lo scotto di una radicata e diffusa cultura patriarcale caratterizzata da una pervicace volontà di controllo e limitazione della libertà delle donne. Temi complessi che la prof. Ersilia Francesca ha affrontato nei giorni scorsi nell’ambito dei seminari “Conoscere il mondo islamico” promossi dal Dipartimento di Scienze umanistiche dell’ateneo di Catania.
Tanti gli aspetti che possono creare problematiche o opportunità alle musulmane, immigrate, di seconda generazione o convertite che siano. Innanzitutto il velo. E qui bisogna distinguere il tipo di velo perché una cosa è il burqa (che copre anche gli occhi ed è usato solo dalle donne afgane) o il nijab (che lascia liberi solo gli occhi ed è usato dalle donne della penisola arabica), altro lo hijab, il foulard islamico che copre la testa e parte del collo lasciando libero il volto, quello più diffuso in Italia. Va detto – ha sottolineato la prof. Francesca – che nel Corano non c’è alcun riferimento al velo, ma un generico invito alla modestia nell’abbigliamento sia femminile che maschile, e che il velo, oltre ad essere estremamente diversificato, è obbligatorio soltanto in Arabia Saudita ed in Iran. Non solo. Il suo uso ha assunto significati differenti nel tempo, basti pensare che durante il periodo coloniale era usato come una forma di resistenza al potere dei dominatori, e che in Iran era un segno di opposizione allo scià.
In Italia, soprattutto la Lega, ha cercato di introdurre leggi che vietano l’uso del velo, anche se lascia il volto scoperto, adducendo motivazioni di ordine pubblico. Non a caso, falsando la realtà, si parla di burqa anziché di foulard islamico. E questo sebbene ci sia già una legge, la Reale del 1975, che proibisca a chiunque di entrare nei luoghi pubblici con il viso coperto. E questo rivela la forte componente islamofobica delle posizioni assunte dall’Occidente, soprattutto dopo gli attentati alle Torri Gemelle e la recrudescenza del terrorismo di matrice islamica. «Si dice di volere tutelare i diritti delle musulmane, ma, di fatto, si colpiscono doppiamente proprio le donne più deboli che subiscono una doppia discriminazione perché non potere indossare il velo per loro significa essere obbligate a non uscire di casa. Inoltre sostenere che si vogliono sottrarre le donne musulmane alla subordinazione all’uomo, significa sostenere che devono essere salvate dall’Occidente, e anche questo è un atteggiamento a forte matrice paternalistica e razzista». Va registrato, però, che, negli ultimi anni, in Europa e in Italia si sta diffondendo una nuova attenzione alla moda islamica, la modest fashion, volta a rendere attraenti e molto femminili il velo e l’abbigliamento delle donne musulmane pur nel rispetto degli indirizzi islamici. Una sorta di sdoganamento del velo. Un business, rivolto soprattutto alle ricche saudite, su cui si sono lanciati anche importanti marchi italiani.
Più complicate sono le questioni legate ai possibili conflitti tra il diritto di famiglia italiano e quello dei paesi di provenienza, soprattutto per quanto riguarda la poligamia che l’Italia proibisce, pur vedendosi costretta a riconoscere, caso per caso, i diritti che derivano da matrimoni precedentemente contratti, e questo a tutela dei diritti dei minori. Questo significa, per esempio, non potere espellere una seconda moglie per non privare i figli della madre. E così per l’istituto del ripudio, che non è un divorzio, ma una scelta unilaterale del maschio, ma che prevede un risarcimento monetario alla moglie ripudiata. Non riconoscerlo, almeno di fatto, equivarrebbe a danneggiare due volte la donna, la parte più debole. Proprio per questo in alcuni Paesi, come la Gran Bretagna, sono previste delle specifiche corti islamiche per risolvere le questioni che riguardano i musulmani. «Un modo di riconoscere la diversità che però rischia di creare forme di ghettizzazione».
Altro discorso è quello delle mutilazioni genitali femminili – non prescritte dal Corano e legate non solo al mondo islamico – diffuse soprattutto nelle classi più povere e rurali. L’Occidente e l’Italia le proibisce, ovviamente, ma è difficile prevenirle senza mettere in campo attente campagne di prevenzione tra le donne migranti. Infine il lavoro. Il 50% delle donne egiziane e marocchine viene in Italia per ricongiungersi al marito. Quelle che lavorano, poche, lo fanno soltanto nell’ambito del lavoro di cura. Più autonome e intraprendenti le somale e le subsahariane che mostrano un’attitudine alla piccola imprenditoria e alle attività commerciali. Tutte, come gli uomini, sono sottoccupate rispetto al loro titolo di studio e guadagnano meno rispetto ai loro connazionali maschi. Discriminazione, quest’ultima, che le accomuna alle italiane.
Fino a qualche tempo fa, questo termine indicava la moda per soli musulmani. la prima intuizione sulla possibilità di crescita di quest segmento è stato il brand “Dolce&Gabbana”, con la collezione chiamata “Abaya”. Oggi quasi tutte le case di moda internazionali dedicano al Modest un ampio spazio e il giro di affari va oltre i 240 miliardi di euro.