Dall’acqua-vino alle vacche sacre

Di Salvatore Scalia / 17 Ottobre 2016

Questa l’atmosfera che si respira a Partinico. E sembra naturale che Piazza Duomo sia stata scelta come scenario ideale per il film del 1968 di Damiano Damiani “Il giorno della civetta”, tratto dall’omonimo romanzo di Leonardo Sciascia. «Qui – spiega l’architetto – erano concentrati i simboli del potere: la chiesa, il palazzotto signorile, la caserma dei carabinieri. All’angolo, prima c’era un bar».

Seduto su una panchina, un vecchietto con un solo dente in bocca, ascolta, s’intromette e, mostrando la storica fontana degli otto cannoli, racconta: «Là andava a dissetarsi Claudia Cardinale». Nel luccichìo degli occhi traspare ancora la delizia di quella visione.

Recita la celebre frase del romanzo sull’umanità divisa in cinque categorie: uomini veri, mezzi uomini, ominicchi, ruffiani e…».

Un altro vecchietto gli ruba il tempo e conclude: «E tu sei quacquaraqua».

Il palazzotto non esiste più, l’hanno demolito e rimpiazzato con un anonimo edificio geometrico.

Alle spalle del Duomo c’è il quartiere Spine Sante, che negli anni di Danilo Dolci divenne uno dei luoghi simbolo della lotta contro la miseria, il sottosviluppo, la degradazione umana e sociale. Era una palude di vite perdute e di reclute per la mafia. Le case ora sono dignitose. «Una volta si camminava nel fango», racconta Vincenzo Fedele che fu amico di Dolci. Bancario in pensione di 82 anni, è stato segretario del Pci, consigliere comunale e provinciale; con la caduta del Muro di Berlino ritenne che la sua stagione fosse conclusa.

Passando per via Giannola, mostra la casa in cui la morte per denutrizione di un bambino spinse Danilo allo sciopero della fame. In via Iannello, la casa a due piani, in cui visse in affitto il sociologo triestino, è l’unica cadente, con le finestre e la facciata scrostate, i balconi pericolanti. Lo stato d’abbandono testimonia il disinteresse per la memoria di un’esperienza esaltante in cui il discepolo del filosofo Aldo Capitini, praticando la non violenza e la disobbedienza civile, fece di Partinico un laboratorio di lotte sociali. In quella casa passarono personaggi celebri: dall’Abbé Pierre a Carlo Levi, al pittore Ernesto Treccani. Vennero pure Vittorio Gassman e il giovane Toni Negri con una delegazione padovana della Fuci, gli universitari cattolici.

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Fu un periodo di fervore creativo e rivoluzione pacifica. Tutto era cominciato nel 1952 quando Dolci decise di dedicarsi ai poveri di Trappeto, il paesino sul mare poco distante da Partinico in cui aveva lavorato il padre ferroviere. Qui il borgo dei pescatori è ormai un lindo luogo di villeggiatura, un po’ artificiale. Il sindaco Giuseppe Vitale, ex maresciallo della Finanza, mostra con orgoglio i lavori di recupero. Le stradine sono lastricate e le seconde case, costruite con le rimesse degli emigrati a Solingen in Germania, in estate si affittano ai turisti. In collina, nel Borgo di Dio fondato da Dolci, gli alloggi sono stati recuperati mentre resta la deprimente visione del teatro abbandonato alla muffa e ai crolli.

A Trappeto Dolci organizzò nel gennaio 1956 contro la pesca di frodo lo sciopero della fame dei pescatori, interrotto dai carabinieri con la scusa che era vietato digiunare in luogo pubblico.

A Partinico i problemi erano moltiplicati per cento.

«Oggi – dice il segretario della Confederazione degli artigiani, Giuseppe Varvaro – viviamo un decadimento morale e culturale, ma qui non sono mancati i momenti esaltanti: le donne sono state in prima fila nei Fasci siciliani tra il 1893 e il 1894, questa è la città dello sciopero alla rovescia».

Fu un’invenzione di Dolci che portò i disoccupati a ripulire gratis un’importante trazzera abbandonata: un modo di affermare il diritto al lavoro garantito dalla Costituzione. La risposta dello Stato fu il carcere. Ci fu una grande mobilitazione intellettuale, da Carlo Levi a Vittorini. Al processo pronunciò una memorabile arringa il giurista Piero Calamandrei. Gli imputati però non schivarono le condanne, anche se lievi. Gli atti del processo pubblicati ebbero la prefazione di Norberto Bobbio.

Dolci sapeva tramutare l’idealismo in fatti concreti: la diga dello Jato non solo diede lavoro ai disoccupati di Spine Sante ma doveva anche irrigare i campi della piana di Partinico. Se poi l’acqua è servita a dissetare Palermo, è un esito imprevedibile dei buoni propositi.

La fantasia popolare a Partinico usa una peculiare scansione delle fasi storiche.

Ai tempi dell’acqua vino si dice per indicare l’era dei sofisticatori, quando le navi cisterna partivano dal porto di Castellammare cariche d’acqua, che durante il viaggio per Genova si mutava miracolosamente in vino.

Questa una della cause della distruzione di una cultura, fondata su secoli di esperienza, testimoniati dalla Real Cantina Borbonica, uno splendido edificio ora restaurato, fatto costruire da re Ferdinando I, quando fu costretto dalla rivoluzione a lasciare Napoli e a rifugiarsi a Palermo. A sovrintendere ai lavori, ultimati in due anni, fu nominato l’Intendente della Real Commenda, cavaliere Felice Lioj.

I partinicesi sono stati talmente increduli di tanta grazia reale che l’hanno spiegata inventando la leggenda della passione della regina Carolina per un loro concittadino. Nel 1860 furono del resto lesti a passare con i Mille, massacrando alcuni soldati borbonici in ritirata dopo la disfatta di Calatafimi. Nella stanza del sindaco c’è una foto di Garibaldi con la dedica: “Alla valorosa popolazione di Partinico”.

Il colpo decisivo all’agricoltura è stato inferto dall’aspirazione al posto fisso e dal clientelismo. Ogni famiglia aveva almeno un impiegato: scuole, sanità, uffici pubblici e soprattutto Poste. Non dimentichiamo che il senatore democristiano Giuseppe Avellone era di Partinico e che per anni è stato sottosegretario alle Poste.

«La borghesia locale – spiega Fedele – non ha avuto gli anticorpi né la cultura per portare a termine il processo di industrializzazione come è avvenuto ad Alcamo, il cui bianco, dal catarratto e dal catarratto lucido, gode di grande prestigio. Non per niente è la patria di Ciullo d’Alcamo».

Comunque esiste una importante cantina che esporta enormi quantità di vino: «Miliardi di bottiglie», assicurano.

Ufficialmente a sostenere le famiglie sono stipendi e pensioni. I giovani ambiziosi emigrano a Londra, ma l’andamento demografico è abbastanza stabile sui 31 mila abitanti. A rivolgersi per sussidi al Comune, messo in ginocchio dai tagli della Regione, non sono solo i poveri di professione ma quelli che, pur volendo lavorare, non trovano lavoro. Il Comune ha 110 impiegati e 240 precari. Ci sono quattrocento imprese artigiane. All’ondata degli immigrati tunisini è succeduta quella dei romeni, si calcola che ce ne siano circa cinquecento.

Ora si riscopre l’agricoltura: uva, olio e… marijuana. I pozzi utilizzati un tempo dai sofisticatori forniscono l’ambiente ideale per la coltivazione dell’erba. Recentemente ne è stato scoperto uno attrezzato di tutto punto: lampade, aeratori e misuratori d’umidità. Si favoleggia che l’impianto sia costato duecentomila euro, ma chi se ne intende assicura che non ne hanno spesi più di ventimila.

Altra espressione in uso: ai tempi del mare colore del vino. Si indica il periodo in cui la distilleria Bertolino, una delle più importanti d’Europa con una quarantina di dipendenti, scaricava i residui della lavorazione nel torrente Pollastri. L’edificio, la cui ciminiera ammorba l’aria, è stata dichiarata industria inquinante di primo livello ma è sempre là, imponente, minacciosa, indifferente, nonostante anni di lotte di ambientalisti, idealisti, politici, giornalisti, magistrati; nonostante chiusure e riaperture e una condanna a risarcire al Comune due milioni di euro.

La proprietaria Antonina Bertolino è figlia di don Giuseppe, emigrato in America ai tempi di Frank Coppola, rientrato, più volte processato per mafia e assolto, finito anche nel mirino del giudice Falcone.

Il sindaco si vanta di essere il primo ad avere raggiunto un accordo per la delocalizzazione dell’azienda, mentre prima di lui i politici, dice, «facevano lotte di facciata». L’accordo però suscita molte critiche per paura che nell’area s’impianti un inceneritore, o per il sospetto che divenga edificabile, o per i vantaggi, infine, che la Bertolino ricava dalla trasformazione di un terreno agricolo in area industriale.

Intanto il pagamento dei due milioni di euro è sospeso in attesa del secondo grado di giudizio.

Altra espressione corrente a Partinico: le vacche sacre e le stalle della vergogna. Si indicano così le stalle abusive demolite e le mucche della famiglia mafiosa dei Vitale detti Fardazza, che per anni ha dominato con il terrore in città. Nel 1997 uccisero l’avvocato Giuseppe La Franca, un eroe borghese lo definiscono, per essersi opposto alle vacche sacre che scorrazzavano liberamente nei suoi terreni. Prima, per intimorirlo, lo avevano bastonato, poi, visto che non si piegava, passarono ai colpi di pistola.

I Vitale Fardazza sono in carcere. Il sindaco, anche se la mafia continua a imperversare, è convinto che non sia più possibile tornare al clima di terrore del passato, per il risveglio della società civile e la nascita di un osservatorio della legalità. Il segno che cosa nostra non controlla più capillarmente il territorio è la crescita della piccola criminalità: scippi, furti, rapine.

E le estorsioni?

«La mafia – assicura Giuseppe Varvaro – ha agito a livelli alti, certamente non a quelli del pizzo ai bottegai».

A Partinico l’analisi degli alberi genealogici e dei legami di parentela è considerato un ottimo strumento di conoscenza, per aiutare a scoprire alleanze familiari, intrecci inconfessabili, favoritismi altrimenti incomprensibili. Datemi un cognome e risalirò gradatamente dal capo mafia al politico corrotto, fino al magistrato compiacente. Il sospetto regna sovrano e le reputazioni fanno fatica a durare immacolate.

Esemplare il caso del direttore di Telejato, Pino Maniaci, giornalista coraggioso e gradasso, nei guai perché inquisito per estorsione. Tutti gli riconoscono il coraggio delle battaglie contro la mafia ma qualche conto non torna. Il sindaco ammette piccole richieste di denaro e dice: «Il credito che gli hanno accordato i giudici antimafia, come Ingroia che è il suo avvocato, mi costringe a iscriverlo tra i buoni, ma usa l’informazione a suo piacimento, denigrando e rovinando la vita anche a politici onesti».

Incontriamo Pino in un bar vicino Piazza Duomo: è un fiume in piena, si dichiara vittima di un complotto.

«Le mie disgrazie sono cominciate da quando ho annunciato delle inchieste sulla sezione fallimentare del tribunale di Palermo e sulla giudice Silvana Saguto, un intreccio d’affari e corruzione pauroso. Ci sono giudici che sono peggio dei mafiosi. La signora, con una ventina di capi di imputazioni, è ancora a casa, ma io sono costretto a risiedere fuori dalle province di Trapani e di Palermo. Così mi vogliono fare ammazzare».

Ripete che il filmato dei carabinieri sull’estorsione al sindaco di Borgetto mistifica la realtà, poiché si trattava di pagamento di una pubblicità.

«Accusano uno che gira l’Italia per conferenze senza ricevere un centesimo».

Sostiene che la prova del complotto ai suoi danni è l’intercettazione di una telefonata tra la prefetta di Palermo Francesca Cannizzo e Silvana Saguto.

Che tempi abbiamo per Telejato?. «Ha le ore contate».

Il contrasto tra tanta sicumera e l’eco della sua voce nelle telefonate registrate, e date in pasto al pubblico, è penoso. Ogni uomo colto nell’intimità diventa piccino: così appare lui quando, con una madre bisognosa, si vanta del suo potere sui politici. Deludente quando, consapevole che ad ammazzargli i cani è stato il marito geloso, vuole fare passare la vendetta per avvertimento mafioso.

Racconta che in Tribunale a Palermo ha incontrato il presidente dell’Ordine dei giornalisti: «Vuoi restituita la tessera?, gli chiedo. «No, aspettiamo la sentenza. Anzi, te la do lo stesso, a me basta l’articolo 21 della Costituzione».

Ci congeda con un gran finale: «Ha ragione Sciascia, questa terra è irredimibile».

Forse è Medellin la Partinico del Sudamerica.

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Redazione
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