Così il riconoscimento facciale aiuta la polizia italiana, ma attenzione ai “falsi positivi”

Di Sebastiano Battiato / 21 Ottobre 2018

E’ di questi giorni l’annuncio ufficiale, da parte della Polizia di Stato, relativo alla messa in campo di un nuovo sistema software in grado di automatizzare la ricerca di volti all’interno di una banca dati contenenti diversi milioni di soggetti. Il volto umano, espressione diretta della identità degli individui della nostra razza; perfino i neonati sono in grado, fin dai primi istanti di vita, di riconoscere il volto della mamma in primis e seguire con lo sguardo gli adulti che gli stanno intorno, anche con un sistema cognitivo appena senziente. Il nostro cervello poi, è in grado di riconoscere volti noti, anche in presenza di distorsioni ed occlusioni estreme e finora le macchine non erano state capaci di battere l’uomo in questo specifico task. Ma adesso siamo agli albori di una nuova rivoluzione tecnologica. In pieno stile CSI, sarà d’ora in poi possibile confrontare le immagini (purchè di buona qualità) provenienti da sistemi di videosorveglianza e interrogare in maniera diretta e soprattutto veloce una o più banche dati contenenti appunto milioni di volti differenti.

La notizia è di sicuro rilievo per diversi aspetti, a mio parere tutti particolarmente significativi. In primo luogo, questo strumento impatta in maniera diretta sulla ricerca e successiva identificazione di criminali seriali o recidivi e quindi sulla sicurezza delle nostre comunità. Sono già stati resi noti, quasi in contemporanea con il lancio del servizio, i primi arresti realizzati grazie al supporto in fase investigativa di tale tecnologia: due ladruncoli a Brescia e il quarto rapinatore della efferata rapina in villa a Lanciano delle scorse settimane. La polizia scientifica ha ufficializzato l’adozione del sistema SARI (acronimo di Sistema Automatico di Riconoscimento delle Immagini) dopo un periodo di sperimentazione che ha consentito di testare e integrare la “face recognition” all’interno dei propri sistemi.

Le forze di polizia in Italia utilizzano da tempo un sistema integrato denominato AFIS (acronimo di Automated Fingerprint Identification System, in italiano “Sistema Automatizzato di Identificazione delle Impronte”) che contiene dati anagrafici e visuali e le impronte digitali di tutti i soggetti sottoposti a fotosegnalazione (fermi di polizia, arresti, ecc.) ma l’interrogazione di tale banca dati era finora limitata ad altri aspetti; le immagini a corredo sia pur acquisite secondo un protocollo ben definito e di indubbia qualità non potevano essere utilizzate per ricercare direttamente un volto a partire da una fotografia di un soggetto ignoto. E d’altra parte per quanto sofisticato, soprattutto tenendo conto dei numeri di cui stiamo parlando, anche SARI non è esente da errori. Il “falso positivo”, cioè la possibilità che l’algoritmo tiri fuori un falso match con un innocente è sempre possibile anche se con sempre più basse probabilità. A tal fine il sistema è solo di supporto all’investigazione, nel senso che l’identificazione finale e le sue conseguenze a fini probatori sono poi affidate agli esperti che confermano a posteriori tale iniziale tramite una perizia antropometrica e fisiognomica di natura scientifica.

Ulteriore aspetto positivo della vicenda riguarda il fatto che l’integrazione e la messa in campo di tale soluzione è stata affidata ad un azienda “Made in Italy”, la Parsec 3.26 con il supporto del gruppo di ricerca del laboratorio ISASI del CNR di Lecce, che è riuscita a sbaragliare la concorrenza di aziende e multinazionali straniere mettendo a frutto il cosiddetto “genio italiano” e impacchettando in termini di costi/benefici una soluzione che ha superato gli impegnativi test di collaudo e la sperimentazione relativa necessaria, considerata la delicatezza del tema.

In tutto il mondo c’è un forte interesse strategico rispetto a queste tecnologie che grazie all’utilizzo delle nuove frontiere dell’Intelligenza Artificiale raggiungono risultati notevoli e vedono in prima linea paesi come la Gran Bretagna, gli Stati Uniti e la Cina. Il fenomeno cinese è quello che suscita negli addetti ai lavori e non solo, maggiori perplessità; si tratta senza dubbio per numero di soggetti coinvolti e soprattutto per tipologia e massa di investimenti, del più grande esperimento di controllo sociale face-based (cioè basato sui volti) mai realizzato.

In Europa si ha una maggiore consapevolezza rispetto alla salvaguardia dei diritti sulla privacy, vedasi ad esempio l’entrata in vigore del GDPR e ciò ci permetterà di governare meglio il fenomeno, impedendo sul nascere la modalità Grande Fratello di orwelliana memoria. Ipotesi distopiche, osservate in alcuni lungometraggi come “Anon” o “The Circle” in cui “tutti” registrano “tutto”, per poi recuperarlo a fini di giustizia e per “veicolare” i rapporti interpersonali della vita quotidiana, si preannunciano però più vicine di quanto non si immagini. Soprattutto perché nel momento in cui l’identità di una persona venisse catturata (anche a sua insaputa) e incrociata con la traccia digitale dei suoi account social e non solo, si riuscirebbe a profilarlo in maniera davvero inquietante. E tali informazioni per fini di controllo sociale o più banalmente in pasto a cybercriminali potrebbero essere davvero pericolose.

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Pubblicato da:
Redazione
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