Corleone (Palermo) – Ai tavolini di un bar, davanti al municipio di Corleone in piazza Garibaldi, un’anziana coppia di stranieri consuma un pasto frugale. La donna a un tratto si alza e viene verso di noi: chiede di chi sia il busto bronzeo alle nostre spalle. Le spieghiamo che è dedicato a Placido Rizzotto, il sindacalista socialista ucciso da Luciano Liggio nel 1948 e fatto sparire nelle forre di Rocca Busambra. Soddisfatta la curiosità, la signora si distrae e non ascolta più il resto della saga: il mandante era il capomafia, il medico condotto Michele Navarra a sua volta assassinato da Liggio…
Lei è di Praga, insegnante d’inglese in pensione, si chiama Elena; il marito Vlado è di Bratislava dove vivono. Stanno facendo un giro di due settimane nella Sicilia occidentale, la prossima tappa sarà Bagheria.
Convinti di venire nella città della mafia, all’ingresso sono stati accolti dalla scritta Corleone capitale mondiale della legalità. Sono disorientati, non riescono a colmare il divario tra l’idea che avevano in mente e la Casa della legalità, il Centro documentazione antimafia, piazza Falcone Borsellino, le abitazioni poco appariscenti dei capi dei capi, le chiese, la gente indaffarata come dappertutto.
Elena è perplessa. «Esiste ancora la mafia a Corleone?». Per rassicurarla, le riferiamo l’avvertimento di Giuseppe Crapisi, tabaccaio laureato in Scienze politiche: «Sono mimetizzati, li riconosciamo solo noi autoctoni».
«Anche a Bratislava – si consola la signora – esiste, è come la mafia ma non si chiama mafia».
Elena e Vlado sono due dei tanti turisti, che abbiamo incontrato, e dei trentaseimila l’anno venuti con l’idea della visita da brivido, ignorando tutto il resto di una città ricca di storia, cultura, fede, tradizioni e monumenti.
Se Corleone è uno dei luoghi dell’immaginario internazionale contemporaneo lo deve a Totò Riina, Leoluca Bagarella, Bernardo Provenzano oltre che alla straordinaria capacità divulgativa del cinema. I turisti arrivano dagli Stati Uniti, dal Canada, dall’America latina e dall’Est Europeo. Tutti hanno in mente la mafia italo americana della trilogia, cominciata nel 1972, del Padrino di Francis Ford Coppola, tratta dall’omonimo romanzo, pubblicato nel 1969, di Mario Puzo. Una melodia orecchiabile, gli sfarzi, i volti fascinosi di Marlon Brando e Al Pacino aggiungono a Cosa Nostra il romanticismo dei belli e dannati.
«Siamo rovinati dall’immagine del Padrino, nonché dai vecchi filmati in circolazione, con picciotti a cavallo e lupara in spalla, che ci mostrano come un paese del Far West. Se però lo scrittore ha chiamato il capo famiglia del romanzo don Vito Corleone un motivo c’è. Baciamo le mani alla fantasia più potente di New York».
Dino Paternostro, storico della mafia e capogruppo dell’opposizione Pd al Comune, ironizza e racconta di un’indagine dell’Università di New York da cui risultò che i tre nomi di città italiane più famose sono Roma, Venezia e Corleone. Per di più Angelo Vintaloro, direttore del museo archeologico, mostra una foto scattata a Kinshasa, capitale della Repubblica democratica del Congo, con l’insegna Restaurant Corleone. I corleonesi soffrono di questa fama negativa ma cercano di trarne vantaggio: dal limoncello all’amaro Il Padrino; dai mafia tour al bar che ha come fregio ornamentale all’interno una sequenza del film, e alle pareti foto, manifesti e ritagli di giornale. Se ne avete voglia vi fanno ascoltare anche la musica. Ci giocano ma sono ipersensibili quando nascono gli equivoci per pregiudizi o mancanza d’ironia. Ci sono cognomi che fanno scattare riflessi condizionati, come nel racconto di una giornalista della Cnn sorpresa perché il museo archeologico è collocato nel palazzo donato da Bernardo Provenzano. Aveva confuso il capomafia con i proprietari terrieri da cui il Comune l’aveva acquistato. Un discendente di questa famiglia è stato anche presidente della Regione.
Di altro equivoco fu protagonista Massimo Ciancimino, figlio di don Vito il sindaco mafioso di Palermo, venuto in visita con la scorta al paese del nonno barbiere. Gli offrirono l’amaro del Padrino ma rifiutò cortesemente. Un giornalista scrisse che i proprietari del bar avevano preso il diniego come un grave affronto, alludendo a possibili ritorsioni.
Cogliere le sfumature a Corleone risulta difficile. La gente in apparenza è aperta, cordiale, disponibile, è abituata alla curiosità dei forestieri e sa fronteggiarla, ma si vive anche di sospetti e di paura della contaminazione. Se cerchi un ristorante, ti avvertono di evitarne uno perché appartiene al nipote di un mafioso.
È pure arduo coniugare i segni di una fede profonda con la ferocia e le stragi di mafia. Su una delle rocche, che sovrastano la città, c’è il castello divenuto dal 1974 uno spoglio convento dei francescani; sull’altra è collocata la statua del primo santo di Corleone, San Leoluca, sovrastato da un Cristo in croce; a mezza costa il monastero del Santissimo Salvatore. L’altro santo locale, elevato alla gloria degli altari nel 2001, incarna la spiritualità del Seicento: colpa e pentimento, rinuncia e lotte notturne contro il demonio. Si fece monaco dopo aver ferito, a 19 anni, un rivale in un duello. Si guadagnò l’appellativo di Spada di Sicilia, che ben s’attaglia all’animosità dei corleonesi.
Nel convento sulla rocca si vive in povertà e di carità. Liborio Grizzaffi, presidente dell’associazione Il Germoglio, rimpiange la figura di fra Paolo, ora missionario in Tanzania, che, negli anni difficili della latitanza di Riina e Provenzano, divenne un faro morale per laici e cattolici, mentre la Chiesa di oggi è silenziosa e si cura d’altro.
Corleone è la città delle cento chiese e della devozione, con 26 confraternite. Andando a visitare la cascata, può capitare di passare in auto tra i fedeli che ascoltano la messa all’aperto davanti alla chiesetta della Madonna delle Due Rocche.
Anche la tradizione laica e sociale ha un forte spessore storico e morale: dal balcone della casa dei Bentivegna, nel 1862 Garibaldi lanciò il proclama O Roma o morte. La famiglia aveva dato un martire al Risorgimento: Francesco Bentivegna, protagonista della rivoluzione del 1848, fu fucilato dai borbonici nel 1856 a Mezzoiuso. Corleone fu anche uno dei capisaldi della rivoluzione dei Fasci siciliani tra il 1893 e il 1894, e patria di uno dei capi, Bernardino Verro. Eletto sindaco, fu assassinato dalla mafia nel 1915. Sulla sua figura si fonda la consolazione che qui si sono fronteggiate da sempre mafia e antimafia. Verro però fa parte dell’enigma siciliano, perché, prima di combatterla e divenirne vittima, alla mafia era stato affiliato. Corleone ha origini antichissime, forse era la Sichera di cui parla Cicerone. Nel museo archeologico alcuni operai, sotto la guida di Vintaloro, stanno sistemando i resti di una grande anfora granaria. Nelle vetrine c’è una coppa del quarto secolo avanti Cristo con la figura nera su fondo rosso di un atleta che ha partecipato ai giochi di Olimpia. Di grande interesse l’unica pietra miliare romana trovata in Sicilia, che segna le LVII miglia che separavano Agrigento dal sito in cui era collocata. L’epigrafe “Aurelio Cotta Console” la fa risalire al 252 avanti Cristo.
La città vanta anche di aver dato i natali a Giuseppe Vasi incisore e vedutista del Settecento, a Pippo Rizzo caposcuola del Futurismo siciliano a cui è intitolato il museo archeologico, e allo scultore Biagio Governali.
Li enumera uno per uno la sindaca Lea Savona. «Dobbiamo liberarci della nostra triste nomea attraverso la cultura». Seguace di Don Sturzo, dice che il suo compito è servire il popolo. Donna di chiesa, battagliera, usa immagini bibliche di leone che si batte nell’arena senza mai rinunciare alla dignità. Nella sua stanza al municipio ci mostra il gonfalone con un leone rampante e la scritta Animosa Civitas Corleonis che ricorda il privilegio accordato nel 1556 da Carlo V. Targhe e diplomi attestano il suo impegno antimafia.
La sindaca però la mafia l’ha avuta in casa: Antonino Di Marco, impiegato comunale, custode del campo sportivo, fratello dell’autista della moglie di Riina e capo del mandamento di Corleone. Poiché al processo il Comune non si è costituito parte civile, il Pd, paventando lo scioglimento del consiglio per infiltrazioni mafiose, reclama le dimissioni di Lea Savona. «Fu il giudice a sconsigliare il nostro avvocato in quanto il Comune non era parte lesa. Esistono tre delibere che mostrano la mia buona fede. È stata leggerezza dell’avvocato che l’opposizione tenta di sfruttare politicamente. Di Marco un capo? L’avevo trasferito alla villa comunale per avere maltrattato un cane. Che capo è uno che faceva estorsioni da 400 o 500 euro? Se però lo dice lo Stato, in quanto sindaca mi adeguo. A me pareva un chiacchierone e, se si offende, quando esce dal carcere può venire ad ammazzarmi, tanto non ho figli». La mafia non bada agli spiccioli, se è vero, come spiega Crapisi, che i piccoli negozi non subiscono estorsioni. Poco più di undicimila abitanti, a cinquecento metri d’altitudine, Corleone, crocevia delle Madonie, vive di agricoltura, olive, pomodoro siccagnu, grano. Le imprese sono a carattere familiare. L’emigrazione giovanile allenta la tensione creata dalla mancanza di lavoro. I corleonesi sono sparsi in tutto il mondo, una folta colonia si trova a Venaria Reale in Piemonte. Le case costruite con le rimesse degli emigrati, a causa dell’alta tassazione, sono divenute un peso. Si vorrebbe vendere ma nessuno compra. Il Comune, con un indebitamento di quindici milioni di euro, ha 65 dipendenti, di cui diciotto part time, più 101 precari e 68 lavoratori socialmente utili. I forestali sono quattrocento. Gli stranieri residenti sono 185, soprattutto rumeni: 71 tra braccianti e badanti.
«I contributi a pioggia del passato – dice Cosimo Lo Sciuto segretario della Camera del lavoro – hanno ostacolato lo sviluppo di una mentalità imprenditoriale. Solo ora stanno nascendo delle aziende di trasformazione che saltano la speculazione degli intermediari. La mafia però continua a investire nei terreni come segno di potere e controllo del territorio». Esiste molta ricchezza nascosta. «I mafiosi – spiega Nicola Bilello, giovane tirocinante commercialista – non amano farne sfoggio». Cosimo Lo Sciuto ha sulle spalle un’eredità pesante, occupa il posto che fu di Placido Rizzotto e di Pio La Torre negli anni delle aspre lotte contadine contro i feudi e dell’occupazione delle terre.
Lentamente anche qui le cose almeno in superficie stanno cambiando. I figli dei mafiosi studiano, diventano avvocati, professionisti, burocrati. Non si ha più paura di lavorare nelle cooperative che gestiscono i terreni confiscati alla mafia. Proliferano le iniziative in cui si parla di legalità. L’ultimo periodo di terrore fu quando, dopo l’arresto di Riina, i figli tornarono in paese. «Si respirava un’aria pesante, si parlava sottovoce, a casa non si pronunciava la parola mafia», racconta Liborio Grizzaffi, uno degli animatori di un progetto che si propone di ridare il significato originario a parole, che la mafia ha stravolto, come onore, coraggio famiglia. Si spera di salvare almeno i giovani in bilico, quelli che la disoccupazione, una piccola necessità, un favore, un miraggio, una cosa da nulla può far precipitare tra le braccia della mafia. «I mafiosi ci guardano con indifferenza, ci reputano inoffensivi».
Più arduo, quando Grizzaffi va ad aprire la Casa della legalità, affrontare lo sguardo del fratello di Provenzano, convinto che sia stata ingiustamente confiscata in quanto proveniente dal patrimonio familiare.
Sulla piazza Garibaldi s’affaccia la rivendita di libri e giornali di Claudio Di Palermo. «Ha il volume del figlio di Riina? In vetrina non c’è». «Ne ho ancora qualche copia, ne ho vendute una decina. Che dovrei fare non tenerlo? Quando viene Ninetta Bagarella devo nascondere i libri su suo marito? Certo sono situazioni imbarazzanti, si subisce una certa sudditanza psicologica».
Se accenni alla campagna di boicottaggio, s’inalbera. «Viviamo di stupidità. Io vendo libri. L’antimafia non si fa con le chiacchiere ma con i comportamenti di ogni giorno». Va a prendere un volume di Camilleri. «Mi spieghi perché se espongo questo sono un signore, se metto in vetrina quello del figlio di Riina sono uno stronzo…». All’imbrunire ci fermiamo davanti al Circolo dei cacciatori. Alcuni soci chiacchierano seduti sulle sedie allineate sul marciapiedi. Un vecchietto rimpiange il vigore perduto. «Andate a conigli?». «Qui non si caccia più da tanti anni».
Salvatore Scalia