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Cinquant’anni, catanese: «La mia vita da sieropositiva»

Di Pinella Leocata |

Giovanna, quasi cinquantenne, ha scoperto di essere sieropositiva a venti anni, al parto. «Anche allora – racconta – il test dell’Hiv era previsto tra gli esami di routine, ma il mio ginecologo dimenticò di chiedere di effettuare lo screening. Paradossalmente è stata una fortuna. All’epoca, in casi del genere, i ginecologi consigliavano alle donne incinte di interrompere la gravidanza. E forse lo avrei fatto anche io, ma, per fortuna, non lo sapevo».

Oggi – spiega – è completamente diverso. «Già qualche anno fa era possibile concepire un figlio sano facendo ricorso alla fecondazione assistita. Nel caso in cui ad essere sieropositiva era la donna si procedeva all’inseminazione con un’operazione meccanica, evitando il contatto, mentre se era il maschio ad essere sieropositivo si utilizzava la tecnica del lavaggio dello sperma, in modo da ripulirlo dal virus, prima di procedere alla procreazione meccanica. Oggi è possibile ricorrere alla riproduzione naturale grazie all’efficacia delle nuove terapie che abbattono la carica virale per cui il virus non si trasmette più al partner né al figlio, nel caso che ad essere sieropositiva sia la madre».

Giovanna racconta che quando apprese di essere sieropositiva le crollò il mondo addosso. Cominciò la paura, la paura dello stigma sociale e la paura di morire. «Quando l’ho scoperto, negli anni Novanta, le persone sieropositive morivano nel giro di qualche anno. Io avevo 20 anni ed ero madre di un bimbo, la persona per cui temevo di più la mia morte, quella che mi ha dato la forza di vivere, di lottare, di andare avanti. Io volevo vederlo cominciare a camminare, volevo vederlo andare all’asilo… Pensavo solo a breve termine, a piccole tappe… e l’ho visto diventare grande».

All’inizio, racconta, si tormentava domandandosi come avesse preso l’infezione, poi capì che aveva poca importanza, anche se ci tiene a dire che le ragazze, tra gli eterosessuali, sono le più esposte al contagio in caso di rapporti non protetti.

Nonostante tutto si ritiene fortunata. «Mio marito mi è stato vicino e così tutta la mia famiglia, ma so che per molti altri non è così, che ci sono grandi difficoltà a intraprendere e a gestire rapporti sentimentali e intimi. Capita che quando si rivela di essere sieropositivo l’amico o la persone che si ama se ne vadano, e questo sebbene le persone in terapia non trasmettono il virus».

Un modo per dire che lo stigma sociale esiste ancora, e che esistono le discriminazioni, anche in ambiente sanitario.

«Solo nei reparti di malattie infettive le persone affette da Hiv sono trattate in maniera normale. In altri ambiti medici, invece, ci sono ancora pregiudizi e discriminazioni, basti pensare che per tutti i tipi di visite, anche quelle in cui non bisogna usare alcun tipo di strumento, anche per una radiografia, ti mettono sempre in coda, l’ultimo della giornata. E dal dentista utilizzano attenzioni speciali anche se il normale sistema di sterilizzazione è sufficiente per mettere in sicurezza gli strumenti. Sul lavoro, invece, le discriminazioni sono più difficili perché non c’è alcun motivo di comunicare che si è sieropositivi, dal momento che non ha alcuna incidenza sul lavoro, e la tutela giuridica contro discriminazioni o licenziamenti è massima. C’è obbligo di darne notizia solo se si opera nell’esercito e in ambito sanitario, a tutela della persona interessata per la quale viene decisa una mansione in cui la sua salute è tutelata».

Giovanna lo ripete. «E’ importante fare il test e, se la risposta dovesse essere positiva, non avvilirsi. Bisogna pensare che non è la fine del mondo, che la vita continua e che si può stare bene. Ed è importante mettersi in contatto con associazioni quali la Lila per confrontarsi con persone che hanno vissuto la stessa esperienza in modo da potersi scambiare informazioni, suggerimenti, pensieri. Bisogna evitare la solitudine che crea mostri».

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