Che Festival Sicilia e Campania così vicine così lontane

Di Giuseppe Attardi / 12 Febbraio 2016

SANREMO. Giovanni Caccamo da Modica, la ragusana Deborah Iurato, il catanese Lorenzo Fragola e la nissena Miele, sono i volti giovani e le voci della Sicilia a Sanremo. Una Sicilia che piace, “sfora” il video e conquista consensi. Storie diverse, ma che hanno un comune denominatore. Sono tutti cervelli, o meglio ugole in fuga. Che di siciliano hanno soltanto il luogo di nascita e, in certi casi, l’accento. Sono l’espressione di un sistema piuttosto che di una città. Inseguono e imitano mode e modelli musicali commerciali: Coldplay, Paolo Nutini, Beyoncé, Ed Sheeran, Gianna Nannini, Laura Pausini.

 

Cantano gioie e dolori dell’amore. Vincono concorsi alla stregua di tante miss siciliane. Il televoto li premia, il pubblico reale li snobba. Offrono un’immagine patinata e irreale della loro terra. Probabilmente perché vogliono tagliare il cordone ombelicale con le proprie radici, per farsi accettare da altri ambienti, attratti dalle mille luci del successo. Personaggi televisivi, virtuali, che lontano dagli abbaglianti riflettori della televisione non riescono ad avere vita propria.

 

Quanta differenza da quella Gerardina Trovato che nel 1993 cantò qui Non ho più la mia città o dall’allora ragazza dei pub Carmen Consoli che all’Ariston si affacciò nel 1995. Oppure dal messinese Tony Canto, navigato musicista cresciuto sui palchi di periferia e che ha scelto di restare in Sicilia e di raccontarla nelle sue canzoni, come nella commovente favola A mare si gioca, affidata alla voce recitante di Nino Frassica.

 

Rappresenta lo spaccato di un altro Sud, quello sudato, inzuppato di acqua salata, sporco di polvere e sangue, fra tragedia e solidarietà. Non conquista le copertine, ma registra il picco d’ascolti nella serata di mercoledì con il 59,67% di share.

 

«Io credo che la retorica nelle canzoni non funzioni sempre – commenta Tony Canto incredulo, “scioccato” dal risultato di mercoledì sera – La canzone, come la poesia, deve nascere spontanea, portare un messaggio di verità. Penso che il pubblico l’abbia percepito. Poi Nino è stato grande, ha fatto ridere con semplicità e poi ha fatto piangere. La gente ha capito che non avevamo da promuovere un disco, ma da dire qualcosa d’importante». Dei siciliani in gara Tony Canto stima Giovanni Caccamo, perché «nelle sue canzoni si percepisce un legame con la Sicilia, ha uno stile battiatesco in alcune, in altre ricorda il modo di scrivere di Rosario Di Bella – spiega l’artista messinese – Non però in questa, anche perché non è sua, ma di Giuliano Sangiorgi. Invece in Fragola o in altri non vedo alcuna sicilitudine. No, non c’è. La sicilitudine è un modo di essere, vedi Carmen Consoli o Mario Venuti, sono british ma di stampo siciliano. I talent no, sono lontani».

 

«A noi giovani cantanti – ribatte Lorenzo Fragola – stanno cercando di addossare la responsabilità di continuare una stagione importante della musica italiana che, per motivi diversi, non può ripetersi perché il mondo e la musica sono cambiati».

 

Eppure dalla Campania arrivano segnali diversi. Wake up, guagliò. Sveglia i ragazzi e sveglia l’Ariston Rocco Hunt con il suo funk, inno rap di un ventenne per le nuove generazioni del Sud. Dietro l’incalzante ritmo, denuncia la disoccupazione e la disillusione nei confronti della politica, intercetta e canta il disagio del Meridione e la voglia di riscatto.

«Qui all’Ariston o porti un messaggio o è l’ultimo palco che vedi» fa eco a Tony Canto. Rocco Hunt è tra i pochi nuovi artisti saliti alla ribalta senza passare dalle forche caudine dei talent show. Nel 2014 ha vinto il Festival tra le nuove proposte raccontando il dramma della Terra dei fuochi con il brano Nu juorno bbuono, questa volta, tra i Campioni, si rivolge direttamente ai politici: “Questa generazione non vi crede, perché un futuro vero non si vede, lo Stato non ci sente, specialmente a noi del Sud. Un lavoro manca sempre, per fortuna abbiamo il groove”. Rocco Hunt, vero nome Rocco Pagliarulo, classe 1994, è cresciuto nelle case popolari della zona orientale di Salerno. Papà operatore ecologico, mamma casalinga, sin da piccolo trova nella musica lo sfogo per i sogni di un ragazzino di periferia.

 

«Mio padre è un gran devoto di padre Pio, mi ha affidato a lui fin da quando mi vedeva tentare di rappare da bambino – racconta – Beh, il santo ci ha aiutato, eccome. Quando ho vinto Sanremo Giovani papà si è fatto un tatuaggio di Padre Pio grosso così». E poi aggiunge serio: «Se non avessi avuto una famiglia come la mia e la passione per la musica, probabilmente sarei finito in qualche brutto giro come tanti ragazzi delle mie zone, che vengono attratti dalle promesse di soldi facili». Non si monta la testa: «Continuo a sentirmi una nuova proposta – sottolinea – Ci sono i big campioni e i big nuove proposte come me, per me interfacciarmi con artisti blasonati è incredibile».

 

Non si meraviglia del tweet che il cardinale Ravasi ha scritto inserendo il testo della sua canzone. Il ragazzotto salernitano, appena vinto il Festival, è «andato in chiesa da don Patriciello e gli ho chiesto: “Padre come posso rendermi utile?” – racconta – E così abbiamo fatto un concerto benefico a Caivano nel centro della Terra dei fuochi. E’ una lotta profonda e difficile, un problema interrato nella nostra terra, una cosa irreparabile. Però è sbagliato cadere nei luoghi comuni. La Terra dei fuochi, purtroppo, è in tutto il mondo, dalla Pianura padana alla Sicilia, fino ai rifiuti tossici scoperti in Africa».

 

E vuol dire la sua anche sui nastri arcobaleno: «Il titolo della mia canzone, Wake Up, coincide con il titolo della manifestazione #SvegliatiItalia in favore delle unioni civili. A indossare il drappo arcobaleno non ci avevo mai pensato, ma il mio brano rappresenta già la mia volontà, la speranza che i diritti per tutti possano prevalere in un Paese medievale». L’importante è pensare positivo. E così se rimprovera i politici: “Voi parlate di futuro e intanto cade un’autostrada, e nei programmi il pomeriggio imbambolate l’Italia” dall’altro si rivolge ai coetantei, lanciando un messaggio di speranza: “Un giorno saremo felici, quel giorno io spero che non sia lontano, non dimentico mai le mie radici, perché in questa terra c’è scritto chi siamo”. Al contrario delle nuove generazioni sanremesi siciliane.

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Redazione
Tag: cultura festival giuseppe attardi sanremo 2016