La letteratura ha la capacità di abbattere qualunque tipo di barriera spazio-temporale. È così anche nel caso dell’ottimo romanzo di Sabina Minardi, “Caterina della notte” (Piemme, pagg. 384) in cui l’autrice catanese residente a Roma collega due donne che vivono in epoche e in luoghi diversi. La prima di queste donne compare sin dall’inizio del romanzo e si presenta con queste parole: «Mi chiamo Catherine e ho quasi quarant’anni. Sui miei documenti c’è scritto Caterina, ma in Italia ci sono solo nata, e a nessuno verrebbe in mente di chiamarmi così. Ho un lavoro che mi piace, un amore ufficiale e qualcuno clandestino, il tempo da inseguire ogni giorno e una camera d’albergo per rinchiuderlo: o almeno, per illudermi di riuscirci. La mia casa è al numero 2 di Redcliffe Square, Kensington, Londra».
L’altra donna si chiama Giovanna, vive a Siena tra il 1347 e il 1380 (è contemporanea di Santa Caterina) ed ha caratteristiche speculari rispetto a Catherine. «È una donna a cui è negata la minima libertà», dice Sabina Minardi. «Una donna che è costretta a vivere per tutta la vita da reclusa all’interno dello Spedale di Santa Maria della Scala, a condurre l’esistenza con questo mantello scuro che è il simbolo più tangibile di una chiusura e di una negazione alla vita. Una donna che non è affatto vocata a quell’ascetismo e a quella santità alla quale lo Spedale e chi le sta intorno vorrebbe costringerla».
A unire le due donne è un antico manoscritto che viene recapitato sulla scrivania dell’ufficio di Catherine. Pagine d’altri tempi che contengono le parole e i pensieri di Giovanna e che si rifanno alla figura di Santa Caterina da Siena. Ed ecco che il romanzo della Minardi, caratterizzato da una grande e appassionata ricostruzione storica e da una scrittura che passa dalla narrazione moderna al “linguaggio d’epoca”, acquisisce una valenza metaletteraria potente ed efficace. Il suo epicentro, tra Londra e Siena, coincide con una mancanza che ha a che fare con la ricerca dell’amore più grande: l’amore materno. Ma c’è altro. A proposito di amore, per esempio, c’è quello rivoluzionario di Caterina da Siena. «Avventurandomi nel corpo delle quasi 400 lettere che lei ci ha lasciato», spiega la Minardi, «ho trovato una figura straordinaria e di grandissima modernità. Caterina da Siena è per tutti noi quel personaggio che convinse Gregorio XI a lasciare Avignone e a riportare la sede del Papa a Roma. Una donna dalla grande missione politica, che bacchettava i potenti del suo tempo, denunciava i casi di corruzione e così via. Però è come se questa figura, in quella missione, avesse quasi un po’ esaurito il suo ruolo storico. Dalla lettura di queste sue lettere, invece, emerge altro: un linguaggio estremamente rivoluzionario che la rende una delle letterate più importanti della sua epoca. Ma rivoluzionario è anche il modo in cui parla dell’amore. L’amore, per Caterina da Siena, è la forza che fa andare avanti il mondo, il fine a cui tende l’uomo, la natura di cui è fatto Dio. Credo che in tutto ciò ci sia una grande modernità».
E poi ancora c’è l’amore per i luoghi. Come rivela l’autrice, questo romanzo nasce prima di tutto da una sua grande passione per il complesso di Santa Maria della Scala, sorto a Siena intorno all’anno Mille. Un luogo non lontano dalla via Francigena e che svolgeva una funzione di assistenza dei malati, di accoglienza dei “gettatelli” (cioè dei bambini abbandonati), ma anche di rifugio dei pellegrini (poiché lo Spedale apriva le porte alla gente di passaggio diretta a Roma). «Questo luogo ha esercitato in me un grande fascino proprio per il suo essere un luogo di passaggio, un crocevia di storie, di culture, di avventure, di misteri; ma soprattutto», evidenzia Sabina Minardi, «per essere un luogo di grande civiltà perché apriva le sue porte agli stranieri e, anziché considerarli nemici, li trasformava in ospiti, li accoglieva».
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